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L’urlo finale  

I tre evangelisti sinottici, (Matteo, Marco Luca) riportano di un grido uscito dalla bocca di Gesù crocifisso. “Gridò a gran voce”. Però dopo quel grido, le parole che seguono, riportate a un dipresso in Marco e in Matteo, ricordano una frase drammatica, che gli evangelisti traducono con “Perché mi hai abbandonato” anche ricorrendo alla citazione di un salmo.

S. Luca, invece, dopo quell’urlo, dovuto al dolore, o al tetano, o alla morte imminente, ricorda le parole: “Nelle tue mani abbandono la mia vita”.

S. Giovanni nota che Gesù “emise il suo spirito”. Non so se questa frase abbia attinenza con l’urlo di cui sopra.

Prima di quell’urlo, Luca ricorda la riconciliazione del ladro comprensivo, che Gesù trascina con sé nel Paradiso. Dopo quell’urlo Gesù spirò.

Gesù rimettendosi alla bontà del Padre, nel suo abbandono al Padre, trascina con sé il ladro benigno, comprensivo.

Urlo e abbandono; urlo e salvezza.

All’estremo delle proprie forze, Gesù sente che ormai è nel Padre. Spesso, quando la malattia indebolisce o l’anemia imperversa, si hanno le sensazioni di trovarsi in un’atmosfera di serenità, nella quale è dolce il lasciarsi andare a un senso di pace e di abbandono. Manca perfino la forza per lamentarsi, per parlare. E spesso una lacrima scende dolce lungo la guancia.

Gesù, nel culmine della sofferenza, s’abbandona. E, siccome in lui il ricordo del Padre era costante, l’abbandonarsi al Padre riuscì spontaneo, naturale. “Nelle tue mani depongo la mia vita”. Era il desiderato ritorno al Padre, presente in tutta la sua esistenza. Quel “dove vado io, voi non potete venire”, che invece nel ladro implorante diventa un “dove vado io, tu puoi venire”.

Quell’ultimo urlo spalanca le porte del Paradiso per Gesù e per chi si fida di lui.

1.01.14