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Invito e comando

Ormai, dopo papa Francesco, si sta felicemente passando dal comando all’invito per tutto quanto concerne quanto non è necessario, secondo la Rivelazione, alla nostra salvezza.

Frange di vecchia mentalità, si sono attaccate in diversi settori. Nella liturgia appare eclatante. Ma anche nei sacramenti. Per esempio, perché protrarre l’età della prima comunione ai bambini che già conoscono e amano Gesù? Perché attendere anni affinché sia riconosciuta la “non-validità” o la “nullità” di una convivenza matrimoniale? Perché non ascoltare i parrocchiani, prima di assegnare loro un nuovo parroco? Perché strappare un parroco a un gruppo di fedeli, solo perché è stabilito da un diktat che il parroco non può durare nella stessa parrocchia più di tot anni?

Che significato acquista il comandare di sospendere il culto in una chiesa, centro di una spiritualità, per convogliare tutti in un’unica chiesa, quando si sa che, per fortuna, la gente oggi non è propensa a diktat, e preferisce il nulla a liturgie comandate?

Perché si preferisce il comando all’invito? Semplicemente perché non si crede all’efficacia dell’invito. L’invito deve essere attraente per assumere efficacia.
Ossia deve muovere non solo l’azione, ma anche l’intelligenza di ciò che viene indicato, e il sentimento per assaporare quanto è indicato.

Ma per l’autoritarismo, che crede di risolvere i problemi “facendo fare” ciò che piace al capo comandante, l’uso del comando è più adatto, provocando in alcuni il consenso, in altri la ribellione, esplicita o (ancora più frequente) trangugiata come veleno, che induce a obbedire solo con il corpo.

07.04.14