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Croce e gioia

Dopo la croce, la gioia.

Gesù lo ripeteva ai suoi, trepidanti davanti alla sua prossima scomparsa.

La vostra pena si cambierà in gioia, dice Gesù. Rincuora i suoi, mentre sta rincuorando se stesso.

Forse è un modo per alleviare la propria pena, quello di alleviare la pena degli altri.

Quando poi assicura che i suoi, al rivederlo vivo dopo la morte, entreranno in una gioia “che nessuno vi potrà togliere”, già prevedeva e forse pregustava il proprio futuro.

Essere trascinati nella gioia di Gesù, presuppone l’essere trascinati prima nella sua croce, nel suo patire. Per donare ai suoi la sua stessa gioia, doveva farli passare prima attraverso il suo stesso patire.

Questa è la bipolarità di Gesù, di ogni cristiano, di ogni persona. La pretesa di essere sempre nell’euforia o la pretesa opposta nel coltivare tenacemente i fastidi, non sono regola né umana, né cristiana. Sono pretese infantili, sorrette, l’una e l’altra, da fantasie malate.

Invece la capacità di scorrere lievemente tra buio e luce, tra fastidi e soddisfazioni, è capacità che nutre la serenità, e che dalla serenità zampilla.

Oggi è di moda diagnosticare la malattia della bipolarità. Essa diventa malattia soltanto nella sua esasperazione.

Però, per i figli di Dio, un barlume di gioia (leggi: serenità) si vive anche durante il dolore, se resta accesa la speranza.

GCM 10.05.13