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Un sano ateismo

Una persona, che conosco da anni, si dichiara “atea credente”. Sente che la propria pace e serenità sgorgherebbe dal superamento del proprio ateismo, ma non trova il Dio che la può salvare.

Io ho l’impressione che quella persona, che si autodescrive quale “atea credente”, in realtà sia una “credente atea”. Il credere è sostegno di ogni vita.
Crediamo nelle nostre idee, nel nostro sentire, nel panettiere, nel farmacista. Gli oggetti del nostro credere sono quotidiani, anzi ci innervano minuto dopo minuto. Senza fede non si vive.

Però quando il credere si rivolge all’oggetto “Dio”, temiamo di non raggiungere tale oggetto. Si crede a tutto, ma non a Dio. Si crede anche alla soluzione dei nostri problemi attraverso il suicidio, ma non a Dio. Dio, del quale abbiamo bisogno, e che si nasconde dietro tutti gli altri oggetti della nostra fede. A lui si arriva travalicando, come ha fatto lui: ha travalicato se stesso per diventare uomo in Gesù.

Allora, la domanda cruciale: di quale ateismo quella persona è atea? Quale Dio essa è incapace di raggiungere?

Infatti essa è atea verso una certa immagine, che s’è inculcata di Dio. E’ atea di un’immagine, o di Dio? Peggio se l’immagine di Dio se l’è creata lei, e pretende che Dio sia il clone della sua immagine. Se è così, è meglio che rimanga sempre atea. Se invece essa accetta il “Dio di Gesù”, è impossibile che resti atea. Perché Dio, il vero Dio, attrae irresistibilmente.

Quando, per lei, si oscurerà il proprio dio immaginario, per incontrare il Dio reale, quel Dio semplice, che noi tocchiamo nel Vangelo, nell’Eucarestia, nel prossimo? Sapendo e credendo che c’è, anche se lei non lo percepisce emotivamente ... come vorrebbe.

GCM 26.02.12