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Dio e un figlio

Dio comanda ad Abramo di sacrificare il proprio figlio. Sembra un ordine crudele, altrettanto crudele dell’ordine di Dio, di incarnare il Figlio, designandolo come sacrificato sulla Croce.

Durante il periodo di Natale pensiamo in particolare all’incarnazione di Gesù. Dio ha voluto uomo il Verbo, non per buttarlo tra gli aguzzini, ma per farlo nascere, per portare felicità nel mondo, e, alla fine, per far ritornare lui e ogni uomo nel seno del Padre. Il tipo di morte di Gesù non è stato prescritto da Dio, ma forgiato dalla cattiveria degli uomini. Con l’ottimismo della bontà di Dio, la stessa morte crudele fu, a posteriori, assunta come motivo di santità per Gesù e per i credenti.

Nemmeno con Abramo, il Dio di Amore fu crudele. Il racconto biblico, nato in un tempo durante il quale il sacrificio umano era consuetudine religiosa, si serve della mentalità corrente per esprimere un concetto più profondo.

I racconti biblici antichi oscillano tra eventi reali e vestiti mistici. La drammatizzazione dei concetti li rendeva più incisivi. Tecnica narrativa che troviamo riversata e rieditata nelle parabole e nell’Apocalisse, nelle vicende di Giobbe, di Tobia, ecc.

Dal racconto mitico e drammatizzato però si ricavano degli insegnamenti precisi:

1) La fine dei sacrifici umani, e la sostituzione della vittima umana con la vittima animale. Più tardi, i profeti avrebbero insistito che l’obbedienza e l’amore sono più valevoli dei sacrifici anche di animali.

2) La gerarchia dei valori: Dio è più importante di ogni valore umano. Abramo aveva concentrato nell’importanza di una discendenza, la propria preoccupazione e il proprio orgoglio. Dio fa comprendere ad Abramo la propria supremazia, indicata a quell’uomo, per il quale il credere a Dio, fu la sua “giustizia”.

Dove c’è un figlio, c’è un disegno d’amore di Dio.

GCM 04.07.13