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Pastori

     Si parla molto di pastorale ecclesiastica. Pastorale è stato definito da Papa Giovanni il Concilio Vaticano II. Gesù, parlando di sé, si definisce anche Pastore autentico, ossia adatto e buono. Lui conosce le pecore, prende sulle spalle la pecora dispersa, alimenta la loro libertà di entrare e di uscire, e dà la vita per le sue pecore. S. Pietro, scrivendo la sua lettera, avverte i responsabili di servire il gregge e di non farsi servire da esso.

Tutte queste indicazioni sono necessariamente applicabili ad ogni persona, sacerdote o no, che si sia assunta l’incombenza di aiutare i credenti in Gesù, sovvenendo con la parola e con i sacramenti. Perciò il bene primario, che i pastori devono conseguire, è quello dei credenti e non il proprio tornaconto materiale o ideologico: da quando io sono parroco vescovo o superiore, le comunioni e i battesimi e la frequenza alla messa grande sono aumentate. Si chiede: sono aumentate pure le pecore disperse?

La pastoralità è in vista della soddisfazione delle idee del pastore, oppure del benessere dei credenti, venendo incontro alle loro necessità, prima che alle esigenze del diritto canonico e dell’organizzazione?

Cito un vescovo, il quale per vedere piena la cattedrale, vieta le funzioni nelle chiese limitrofe. Alcune funzioni della cattedrale sono svolte di notte e lontane dalle case degli anziani, i quali saranno privati dei benefici di quelle funzioni. Si dice: questi anziani sono dispensati dall’intervenire. “Dispensati” dall’obbligo sì, ma quel “pastore” non sa che le sue pecore più deboli saranno “private” del bene di grazia sacramentale?

GCM 13.10.07