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Povertà in Gesù 

S. Francesco inizia la sua regola con la frase riassuntiva e basilare: “Osservare il Vangelo, vivendo in obbedienza, in castità e senza proprietà”. “Senza proprietà”: quasi tutti i testi traducono con “povertà”.

Castità, obbedienza e povertà, per Francesco sono relazionate a due riferimenti: “secondo il Vangelo” e “vita da fratelli” (ossia comunità). Non sono “virtù” che riguardano solo se stesse, ma sono inserite in un contesto che le specifica.

Casti sono anche i coniugi. Casto era Gandhi.

Poveri volontari sono anche filosofi, come Diogene.

Quale luce è donata alla povertà, se vissuta secondo il Vangelo e in un contesto di fraternità?

Il Vangelo, realtà di Gesù che si fece povero per noi, non è un adoratore della povertà assoluta. Anzi non si ferma a teorizzare la povertà. La povertà è semplicemente un essere liberi per il Regno. Gesù è la misura della povertà autentica. Quel Gesù che “non ha dove appoggiare la testa”. Ma questa indicazione non è un assoluto. Difatti quando gli apostoli chiedono “dove abiti?” lui in quel caso li invita ad andare a vedere, e poi li ospita per il pomeriggio.

Come si vede, la povertà in Gesù è un valore ballerino: ora sì e ora no. La misurazione della povertà in Cristo, è Cristo che sa “abbondare e mancare”, come dice Paolo di se stesso.

La povertà si adatta alla persona. Non è la persona che si adatta alla povertà, rendendo questa un idolo. La povertà è misurata dalla vita fraterna, quindi ha una dimensione sociale. Per gli ammalati, Francesco indica di vendere i vasi sacri.

Tutti i discorsi sulla povertà diventano un’astrazione accademica, se non si rapportano alla persona di Gesù e alle persone.

16.03.15