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Depressione e lode

L’anima buia dell’ebraismo è presente nel libro del Qohelet. Il libro è tutto trascorso da pessimismo, che esce da una persona depressa.

Come tutti i depressi, lo scrittore sfrucona nelle pieghe dell’essere e dell’agire umano, per dichiarare che tutto è inutile, è vuoto, è “vanità”.

Il discorso sulla vanità è articolato e prolisso. Inutile esso stesso, e inutili le pagine che si susseguono ossessivamente.

Eppure tutto questo fascio di pessimismo è dichiarato “parola di Dio”! Forse per la finale, dove si ricorda che nella realtà funerea si accende un’eccezione: la possibilità di aprirsi alla fede. Questa riscatta l’evolversi della depressione.

Si tratta allora di una parola di Dio, ma non su Dio. Parola che sottolinea l’inutile precarietà delle opere umane. Se esse si arricciano in se stesse, producono il nulla, l’insignificanza.

Gesù, evidentemente, conosceva questo lato depressivo ebraico. Dio l’aveva visto e accusato. Ritroviamo qui, ampliato in mille esemplificazioni, quel “Non disobbedite, altrimenti morirete!” detto ad Adamo. Una descrizione della perdita, se l’uomo pretende di costruire soltanto per sé, e nel tempo.

Gesù, proprio conoscendo questo buco nero della psiche ebraica (e umana) intende portare la luce dentro le tenebre: dentro la povertà, la sofferenza, la persecuzione e l’umiliazione, egli scova una beatitudine, una felicità.

Anche chi si è assuefatto a Gesù fino a incarnarlo in sé, come avvenne in S. Francesco, riesce a godere della vita, e di sorella morte. Egli scopre e, in qualche modo, dirige la sinfonia di lode, che emerge dai vari strumenti delle creature, dal sole, dalla terra, dal perdono. La depressione, sofferta anche da Francesco, non soffoca il suo “laudate!”.

GCM 21.02.11, pubblicato 19.04.11