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Le parabole

Gesù doveva parlare usando le parabole. Esse erano un riflesso di lui stesso.

La parabola è un dire e non dire. Un indicare altro da ciò che esprimono. In quanto esse esprimono qualche concetto, esse dicono. In quanto esse indicano altro, esse non dicono quest'altro, ma soltanto stimolano l'intuizione.

Lo stesso Gesù è una specie di parabola. Egli si mostra, perché uomo come noi tutti: si dice con parole umane, comprensibili. Eppure ciò che lui vuol far intuire, non è dicibile, anzi è un riflesso e un indovinello (per speculum in aenigmate, come si esprime S. Paolo).

Anche la Chiesa è una parabola. Dice e non dice. Ciò che dice è visibile, poi diventa segno, perfino definizione filosofica e teologica. Però in sé la chiesa porta l'indicibile, che essa non riuscirà mai a mostrare. La Chiesa, per quante definizioni possa dare di sé, non riuscirà mai a mostrare il suo intimo, che è lo Spirito di Dio. Per essere se stessa è obbligata a tenere nascosto l'arcano. Non soltanto nascosto agli occhi, ma perfino al cuore.

Eppure questo nostro camminare a tentoni è quanto di più solido possiamo incontrare nella vita. La fede non genera insicurezza, ma ovviamente fiducia.
Proprio il non veduto ci assicura che ivi c'è Dio. Infatti Egli non è un non veduto passivo, ma produttivo: di santità, di gioia, di carità, d'amore.

Noi stessi, in quanto credenti, siamo una parabola. Se vediamo qualche barlume di Dio, poi lo stesso nostro desiderio di Dio ci nasconde ciò che prima abbiamo veduto di Dio, per scoprire altro e più in là.
Il mondo, reso parabola, può essere spiegato, ma solo da Gesù. Non spiegato con categorie logiche, ma con altre parabole. Per esempio: il seme è la Parola. La Parola a sua volta non è una cosa, ma un semplice segno. E così di seguito, in una catena infinita, che si aggancerà, alla fine, nell'infinito.

GCM 29.07.02