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Il suo calice

“Potete bere il calice che io sto per bere?” Questo chiede Gesù ai due fratelli che ambivano ai primi due posti “nel suo regno”. La risposta è chiara, sebbene non riflettuta nelle sue conseguenze: “Sì che lo possiamo!”.

Gesù invita a bere il “suo” calice, ossia a partecipare al suo destino, alla sua croce e alla sua risurrezione. Egli aveva già detto, in altra occasione, che era necessario che ciascuno assumesse la propria croce, per seguirlo. Ora dice di partecipare al calice che lui stava per bere. Ossia di stragli vicino nella sua passione e nella sua risurrezione.

“Lo possiamo”, dicono i due. E poi si addormenteranno nell’orto degli ulivi, scapperanno durante la cattura di Gesù, saranno rimproverati da Gesù per non aver creduto ai testimoni della risurrezione. Gesù prevedeva tutto questo, come previde la debolezza di Pietro il rinnegatore, e di Giuda il traditore. Perciò avvertì i suoi che il suo regno, essendo il regno del Padre, non si confaceva con i regni della terra. Qui i “governanti” (governanti, dice il testo, non i re: gli archoretes, i primi, i capi delle nazioni) primeggiano e opprimono, ascoltano le ambizioni dei loro sostenitori e li creano ministri, viceministri, sottosegretari, ecc.

Gesù, come risposta all’ambizione di tutti i suoi dodici, contagiati dallo stile dei governanti sulla terra, indica il  nuovo stile, la nuova mentalità: scegliere di essere agli ultimi posti, quando nasce il desiderio di ricoprire i primi posti.

Il motivo di questo ribaltamento non è uno stile anticonformista (come Diogene), ma un “bere lo stesso calice di Gesù”, inserirsi nel suo destino, perché da ricco si fece povero, e si infiltrò tra gli uomini non per essere servito, bensì per servire, e addirittura dare la sua esistenza quale liberazione per molti.

 FCM 03.03.10   -  Pubblicata 08.06.10