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Felicità temuta

È proprio vero che una società per evitare la felicità si ingolfa nel piacere. Piacere della lotta tra i partiti, tra marito e moglie. Piacere dell’ansia nel desiderio di seguire la propria squadra di calcio per sapere se vince. Piacere di torturare dentro e fuori le prigioni o i lager. Piacere di costringere la donna o l’uomo a subire la sottomissione  genitale. Pia-cere di accumulare ricchezze, di aumentare la produzione. Perfino pia-cere di sentimenti nella pietà e nella preghiera.

Il piacere, che vige effimero, si oppone alla felicità che tende a perpetuarsi in stato di serenità, di sorriso, di amabilità.

La paura della felicità, che non si nutre delle facili emozioni, ma esige il risveglio degli strati più profondi del nostro essere.

Gesù ci regala “la pace, la mia pace, che non è quella data dal mondo”. E si abbandona il Gesù della pace, per amore della frenesia.

Si evita la felicità, perché siamo tanto abituati e affezionati alla nostra fetta di angoscia esistenziale, che ci disorienteremmo se ne u-scissimo.

Uscire dall’angoscia esistenziale è null’altro che “ritornare al Pa-dre”. Le estasi dei santi, o le nostre modestissime contemplazioni, sono stati di esulazione dalla nostra angoscia esistenziale, periodi di ritorno al nostro stato iniziale di ammirazione gratuita del Padre.

La paura della felicità è paura dell’amore, la paura dell’amore è paura del Padre. Solo il Padre è largitore di “ogni bene”. La felicità è la fruizione di “ogni bene” concentrato nella sua fonte eterna, il Padre. La paura della felicità è semplicemente paura di Dio.

Di quale Dio? Del Dio Padre di Gesù, o del Dio indifferente allo svolgersi della vita degli uomini, prodotto dall’Ebraismo o dalle pretese degli Illuministi?

GCM  10.05.12