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*Passioni ed esperienza mistica

Invitato dal vostro presidente a parlare con voi, mi fu chiesto di conversare sul te-ma “passioni”. Quando chiesi se dovevo seguire un taglio preciso, mi fu risposto di parlare liberamente. Certamente conversare con le persone quando si è richiesti è molto più piacevole di quando si deve parlare senza che le persone lo richiedano. Perciò un bel grazie.

Allora, trovandomi in alto mare, cominciai a sbizzarrirmi su ciò che emergeva da dentro di me secondo lo stimolo “passioni”. Da psicologastro, io so che quando ci viene offerto uno stimolo confuso, Wartegg insegna, ciò che esprimiamo diventa proiettivo. Affronto il pericolo di essere scoperto. Quindi a voi comunico il frutto delle mie bizzarrie e vi chiedo di indicarmi, se vi garba, gli svicolamenti del mio errare scioltamente.

Pur procedendo a ruota libera mi imbattei in un tema a me caro: “Passioni ed e-sperienza mistica”. Arrivato a questo confine, mi arrestai. Ed ecco ciò che mi pare utile comunicare.

1)- Premessa semantica.

Una anomalia semantica è facilmente rilevabile nel significato di “passione”. Patire è subire. Oggi la passione in molti dizionari (anche di materie psicologiche) è inteso come attiva fonte che spinge ad agire, e talvolta con violenza irrazionale.

Tutti sappiamo che l’anomalia è evitata nelle mitologie.

Chi non ricorda il deuccio Eros, che con le sue frecce stimola ad agire o a emozionare i poveri colpiti, tanto che passivamente si sottomettono agli scherzi di Eros. Ecco Enea e Didone. La mitologia mediterranea, espressa soprattutto in ambiente greco e latino, sottomette ogni mortale agli impulsi degli dei (chi non rammenta l’Iliade, per esempio?), e gli dei, che si divertono nel porre gli uomini in conflitto, a loro volta, sono sottoposti al volere oscuro del Fato. Insomma si snoda una catena di passività, delle quale le marionette sono una mera allegoria.
Evidentemente non intendo ridurre a ciò il grande mito di Eros, movente di tutta la vitalità dell’universo e incanalato razionalmente da Logos e per-ciò rinforzato appunto dal Logos. Ma questo per il momento lo tralascio.

Non solo la mitologia mediterranea, ma è sufficiente leggere la letteratura indù dei Gita, per scorgere le diffusione di questa passività, che cancella ogni responsabilità nell’uomo. D’altronde dove non c’è un Dio etico, non esiste neppure un’etica umana.

La Bibbia invece mostra come Dio affida compiti all’uomo, ne esige la libera atti-vità. Eppure l’uomo deve agire sotto la direttiva della Legge, per non utilizzare erratamente la propria libertà.

La Legge però, in un secondo momento deve “entrare nel cuore”, e, usando schemi psicoanalitici, formare dall’interno dell’inconscio, la spinta ad agire. L’azione è obbedienza, sottomissione a uno stimolo profondo.

Anche in questo caso la pulsione è preceduta dalla passione, ossia dall’aver in qualche modo subito. Eppure è un subire, che non si configura come una meccanica costrizione. Non è destino, è collaborazione.

Gesù opera in questa sottomissione allo stimolo di Dio: “Ciò che piace a Lui, faccio sempre”. Qui la sottomissione si colora di piacere. Gesù è felice di agire in armonia con il Padre, proprio Lui attraverso il quale, nell’eterno, fu fatto tutto ciò che esiste. Quella di Gesù è un’azione libera, ma sempre in armonia con la missione a lui affidata. Gesù si specchia nel Padre, per decifrare bene il proprio agire.

Questo atteggiamento Gesù indica ai suoi, quando parla con essi del loro futuro.

A Pietro predice che da vecchio dovrà sottostare ad altri. A tutti indica la forza interna, che li stimolerà. “Lo Spirito vi guiderà a tutta la verità. Non parlerà di propria iniziativa, ma dirà tutto ciò che ha udito”. Anche lo Spirito è legato a Gesù, come Gesù  è legato al Padre.

Una frase chiara è espressa da S. Paolo: “Coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rom 8,14).

Sorge una domanda ovvia, secondo le nostre categorie illuministiche di libertà e di schiavitù: ”Se con Dio, tutto è dipendenza, dove sta la libertà umana?”.

La risposta è semplice: “La libertà umana è libera, non perché si crea da sola, ma perché innervata dalla libertà di Dio!” – Proprio il dipendere, come natura, da Lui, il Creatore, ci fornisce la nostra libertà.

Il nostro “patire” Dio, crea in noi la qualità di essere liberi. La libertà dell’uomo è possibile, perché egli esce forgiato libero dalla mano di Dio.

I mistici

Ritornando all’endiadi Eros e Logos, ci chiediamo: ci sono situazioni, nella quali il Logos, quasi scompare davanti all’Eros? Un Eros così potente da essere invasivo e da non poter subire alcun Logos? - Esiste inoltre un livello più intenso, dove l’essere passivo, ci rende sublimemente attivi. Questo si svolge all’interno dell’esperienza mistica. In essa si uniscono le due realtà, quasi due versanti della stessa cima.

Per intuire questa intensità, che forse nessuno di noi poveracci ha sperimentato, rammento l’esperienza di due santi: Teresa d’Avila, Giuseppe da Copertino. La prima notissima per le sue esperienze mistiche: chi non ricorda la scultura del Bernini? Il secondo, perché l’ho potuto visitare e studiare da vicino, avendone anche pubblicato un mio studio.

Ogni studio sulla vita mistica sottolinea apoditticamente la piena gratuità dell’esperienza, dove si esprime l’opera di Dio e il subire e poi esaltarsi in azione la piena gratuità dell’esperienza, dove si esprime l’operare di Dio, e il subire gioioso, il patire felice di quell’operare. Subire ed esaltarsi in azione indicibile, eppure umana, ci aiutano a scorgere la netta unione della passione: subire e reagire.

2° Teresa di Gesù

Teresa di Gesù nacque nel 1515 ad Avila, in famiglia nobile e cristiana (forse con qualche ascendente ebreo).
Rimasta dodicenne orfana di madre, ebbe una gioventù un po’ sventata. Poi, spaventata dall’idea dell’eternità, comincia a mutare vita, mentre era nell’educandato delle monache agostiniane. A  21 anno indossa il saio tra le carmelitane di Avila. S’ammala gravemente, tanto che allestiscono i suoi funerali. Lei stessa afferma che fu guarita da S. Giuseppe.

Ritornata nel monastero, si adatta però a una vita mondana, in qualche modo sul tipo della monaca di Monza, ma senza gli estremi di questa. A 38 anni la troviamo convertita e decisa a vivere rigorosamente. Altro spavento: l’eresia luterana, per ostacolare la quale volle riformare il monastero, che doveva essere di una esemplarità decisa.
A 47 anni fonda il monastero più rigido e osservante. È l’estremo dei convertiti?

Tra mille difficoltà creò oltre una quindicina di monasteri rigorosi in Spagna. La riforma ideata da Teresa si estende anche tra i carmelitani, grazie all’incontro con Giovanni della Croce. E sorgono in Spagna i primi conventi di Carmelitani scalzi.

Questa intensa attività riformatrice insospettisce, ed ecco arrivare dai superiori l’ordine di sopprimere le riforme dei conventi. E Teresa fu confinata e le proibirono di uscire dal monastero. Continuò tuttavia a sostenere le riforme, come poté, mentre scriveva le opere che ci ha lasciato. Morì settantenne ad Alba.

Questa donna fragile e intrepida, equilibrava la sua robusta attività, con una intensa vita di fede, accompagnata da estasi, ossia dal subire le arcane spinte dello Spirito.

La passione del ricevere e quella dell’operare senza sosta.

Un subire l’opera di Dio, nel pieno di un’attività robusta. Tanto più attiva, quanto più stimolata dalla contemplazione, spesso estatica. Un po’ differente dagli impegni produttivi dei giorni nostri, che non sempre muovono dalla contemplazione di Dio.

Teresa era tutta tesa all’amore di Dio. Di questo aveva sete enorme. Ne voleva morire. La sua frase celebre, anche ritmata in poesia era: “Muero por que no muero”. Qui si nota una chiara eco alle Confessioni di S. Agostino: morire per non morire.

Spesso ha descritto le proprie estasi, anche con stile drammatico: ci troviamo davanti a una spagnola. Anzi tutti i suoi scritti tendono a descrivere la mano di Dio, che riempie e trascina la persona, piuttosto che la reazione appassionata della persona, che subisce (o patisce) gli stimoli ineffabili di Dio. Nel leggere i suoi scritti ci si perde non per la mancanza di logica (la santa è debitrice a una certa corrente di teologia scolastica), quanto per gli apici di intuizione mistica.

Affinché anche noi possiamo intuire la felice misteriosità degli stimoli che causano l’esperienza di Teresa, io cito alcune frasi tratte dalla quinta delle sue “Relazioni spirituali” (1576).

“Compito difficile esprimersi in queste cose di spirito, quanto più esse sono di corta durata”.

“Non dirò nulla che non abbia sperimentato”.

“Devozione, tenerezza, dono delle lacrime, meditazione: cose tutte che con l’aiuto di Dio si possono ottenere anche con le nostre forze. Chiamo orazione soprannaturale quelle che non possiamo acquisire con le nostre industrie e diligenze”.

a)- Nella prima orazione soprannaturale, “sembra che l’anima abbia in sé altri sensi, come quelli del corpo ... Sente il bisogno di chiudere gli occhi ... per sentire ...i suoi intrattenimenti con Dio solo”.

“Altro effetto è il cosiddetto sonno delle potenze ... Qualche volta ... l’anima si accorge d’essere solo unita [a Dio] con la volontà [N.R.: è un contributo alla teologia corren-te, che poneva nella volontà la capacità di amare].

b)- “Nell’unione ... le potenze non possono far nulla e l’intelletto è come assente ... La memoria e l’immaginazione sembrano assenti, smarriti anche i sensi esteriori, invece d’esser pronti all’azione, ... ciò avvenga per permettere all’anima d’occuparsi più intensamente di ciò che gode ... quando quest’unione è vera, credo che sia la grazia più grande ... che Dio possa farci nel cammino spirituale”.

Passiamo ad altri gradi dell’esperienza.

c)- I rapimenti, o, in termini oggi tecnici, le estasi.

“Il rapimento dura più a lungo, lo si riconosce esteriormente, soffoca tanto il respiro da impedire pure di parlare e d’aprire gli occhi ... trasportando via, non so dove, anche il calore naturale ... si rimane in piedi o in ginocchio come si era all’istante del rapimento”.

“Quanto è quello che si gode ... il Signore svela qualche sua grandezza”.

d)- Il ratto, o, secondo gli autori più recenti, il rapimento. La differenza tra estasi e rapimento consiste che nella prima “l’anima muore a poco a poco ... sino a perdere l’uso dei sensi”. Nel secondo esso “assale con tal impeto da dare all’anima l’impressione di venir trasportata al di sopra di se stessa, fino a sembrarle di uscire dal corpo ... essa deve abbandonarsi nelle mani di Dio, lasciandosi portare dove lui vuole”. “In questo stato ... i desideri divengono più intensi, meglio si comprende la Maestà dell’Altissimo”.

e)- Ora un’altra forma di esperienza passiva: il volo di spirito. “Consiste in un certa cosa che non so come chiamare, ascendente dal più profondo dell’anima ... Immaginatevi un gran fuoco pronto a gettare le sue fiamme: tale è la disposizione dell’anima in rapporto a Dio. Il fuoco si accende prontamente, sviluppa la sua fiamma e sale molto in alto ... l’anima sembra proiettare da sé una qualche cosa di estremamente delicato che sale d’improvviso verso una regione superiore per andare dove il Signore vuole ... il volo dello spirito è un favore così delicato e prezioso che in esso non sembra possibile alcun inganno ...”.

Il testo parla di altre forme di preghiera e di contemplazione tutte caratterizzate dall’amor di Dio, e dall’attraimento misterioso di Dio. Il sottofondo di “rapimento” domina tutte le forme di esperienza spirituale. Più “patire “ di così è difficile incontrare.

A questo punto credo opportuno riferire l’episodio che ispirò la scultura del Bernini (Vita, cap. XXIX).

“Vedevo vicino a me, al lato sinistro, un angelo sotto forma corporea ... Non era grande, piccolo e molto bello ... teneva in mano un lungo dardo d’oro, sulla cui punta di ferro sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse varie volte nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando ritirava il dardo, lasciandomi avvolta in una fornace di amore. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscir nei gemiti di cui ho parlato più sopra, ma pure insieme tanto dolce da impedirmi di desiderare la fine e di cercar altro diversivo fuori che Dio ... Allora tra l’anima e Dio passa un soavissimo idillio; e io prego la divina bontà di farne parte a coloro, che mi prestano fede ... quando ero in questo stato andavo come fuori di me”.

3°- Giuseppe da Copertino

Parlo di una persona che mi è cara e che ha catturato per parecchio tempo le mie riflessioni.

Richiamo qui, grosso modo, alcuni tratti delle sua biografia, per poi soffermarmi sul suo patire-agire. Ossia ancora una volta prendo l’avvia dall’agire e non dal patire.

Pugliese, a Copertino, Giuseppe nacque in una stalla, dalla madre in fuga per evitare l’imprigionamento del marito, oberato dai debiti. Spesso malato, tenta di entrare nell’ancora abbastanza fresco ordine francescano dei Cappuccini. Respinto dai Cappuccini, riesce ad entrare nell’ordine francescano dei Conventuali. Di non grande intelligenza, ma di devozione e di fede abbondanti, ordinato fortunosamente e mirabolescamente sacerdote, vive una vita di penitenza (le penitenze di allora!), di estasi corredate da levitazioni, e di aiuto amorevole ai poveri.
Capace di aiutare la gente, anche invocando su di essa il miracolo.

Però la sua pietà, la sua schiettezza, la sua intercessione per le guarigioni, e le sue strane levitazioni da terra, insomma la sua straordinario bontà e fede, insospettiscono necessariamente i superiori ecclesiastici, incitarono le invidie della dame, commossero l’Inquisizione, che lo sradicò dalla sua patria e lo fece esiliare tre volte: Assisi dai Conventuali (dove la sua fama fu riconosciuta tanto da essere promosso cittadino onorario, cosa che destò invidia più accentuata), Fossombrone dai Cappucini, Osimo di nuovo dai Co-ventuali.

I santi sono degli animali strani: vanno avanti costanti senza quello che noi, persone per bene, definiamo “il buon senso”. E loro hanno ragione, perché alla fine vincono loro e mantengono nell’eterno ciò che conquistarono nel tempo. In un  modo, quindi, diverso del nostro affannarci a guadagnare nel tempo per perderlo tutto alla fine.

A differenza di Teresa d’Avila, Giuseppe da Copertino non ha fondato nulla, ma ha aiutato tutti quelli che era in grado di aiutare. Cioè l’esser attivo con i poveri, con gli afflitti, con i semplici e ... con se stesso per superare le proprie deficienze nella dotazione personale caratterizza la sua spedita attività.

E tutte queste semplici attività ricevevano una spinta dalla contemplazione.

Teresa parlava di ratti, di elevazioni intime e cocenti. Giuseppe pure era soggetto a elevazioni, anche fisiche. Fu nominato “santo dei voli”, proprio perché volava davvero, talvolta anche a metri da terra, e non una sola volta, e fino a turbare le suore in preghiera, perché lo vedevano volare sopra le loro teste devote e caste. Il suo subire l’azione di Dio, si confondeva con il massimo delle possibilità insite nella natura umana: l’estasi.

Gli episodi di estasi erano frequenti, e da essi usciva per comando del superiore, magari entrando in imbarazzo, come quella volta che, in estasi, era salito in alto, e al comando del superiore uscì dall’estasi, ma trovandosi sopra una colonna, non sapeva come scendere a terra.

Gli episodi di estasi erano sempre frequenti. Però si rarefecero, quando fu sbattuto in Assisi dall’Inquisizione.

Ad Assisi infatti appena arrivato era spaesato, disorientato, lontano dalla sua patria e dalla cappella della Madonna da lui preferita. Disorientato subì anche una diminuzione delle estasi. Ma appena riambientato, esse ripresero. Per me, questo calare e riprendere è una corrispondenza, da me sempre notata, tra psiche e pietà, aspetto sotto il quale condussi il mio modesto studio su Giuseppe.

Egli “pativa” le estasi. Ne parlava con i suoi confratelli, i quali riportarono questa sua frase:  l’estasi “era un male che pativa”. Spesso era assorto nell’estasi, ma non seppe esprimere meglio i suoi fenomeni, che con il dichiararsi un dormiglione. Il che comportava una “sua infermità e imperfezione”.

Addirittura egli chiedeva agli altri di pregare il Signore “che non desse simili estasi, particolarmente in pubblico”.

Egli diceva: “Non stanno all’arbitrio dell’uomo di averli. Lo spirito estatico non c’è sempre nei servi di Dio. Comincia, ma finisce pure, e così l’uomo si raffredda e può fare le sue funzioni spirituali. Se non può stare alla prima messa, stia alla seconda, alla terza, ma non lasci la messa nei giorni festivi”. Evidentemente per lui era un difetto, che impediva di ascoltare devotamente la messa.

Ed ecco alcune semplici idee di Giuseppe sulle estasi, idee lontanissime dalle teorie di Teresa.

“Chi va in estasi è come uno che si butta in mare nuotando. Egli vede cose che sono nel profondo del mare, né si ricorda più della terra. Ma gli altri, che sono presenti, non vedono che li movimenti di colui che sta nell’acqua, non arrivando a vedere quello che egli vede nel vasto mare. Così avviene nell’estasi, perché l’anima si congiunge ed entra nel mare magnum del sommo Dio e vede quello che non si puole ne anco raccontare, se bene intendere si possa. Ma chi sta dove uno va in estasi, non puol altro considerare che la positura del corpo”.

Egli cercava immagini per indicare la sperimentazione delle estasi: lo specchio che raccoglie tutte le immagini, la drogheria zeppa di aromi. Però il centro è sempre l’amore.

“L’unione all’amor di Dio  quando l’anima si unisce con Dio e resta come stupida e fuor di sé, considerando la sua viltà. Quei salti, quei motivi, che si vedono fare da persone che hanno queste grazie, procedono da atti di umiltà, considerando la grandezza di Dio e la loro miseria. In questa unione l’anima è tirata pura come un filo d’oro”.
“L’estasi è come un assaggio della vera gloria del Paradiso”.

Trovo scritto: “Passione per Dio”. Già essa ci induce a pensare ai santi. La passione per Dio, è anche la traiettoria indicata a tutti noi, perché tutti noi tendiamo a realizzare qualche ideale. Tra gli ideali è urgente focalizzare l’ideale “Dio”. O almeno l’ideale idolo. Qualunque veste avvolga l’idolo: sport , affari, arte, donna per i maschi, maschi per le femmine, o non sempre.

Attorno a questi ideali secondari, si crea sempre “Un altare per la madre” per esprimerci con Camon; ossia un senso religioso. Non per niente oggi è abusato il lemma “adoro”.

S. Paolo ci avverte di non appassionarci per il male (I Cor, 10,6). Pascal tratta sulla passione di convincere. Non vorrei cadere in queste passioni.

S. Agostino individua nella ricerca un attraimento di Dio. “Il mio cuore resta inquieto, se non riposa in te”.

Gesù specifica più nitidamente le due facce della passione. “Nessuno giunge a me (fase attiva), se mio Padre non l’attrae (fase passiva)”.

Non so se ho eccitato in voi un bisogno di conoscenza, oppure una reazione di rifiuto per quanto vi ho confidato. Se così fosse, anche in questo incontro si è verificata l’ambivalenza della passione, per quanto modesta. Uno stimolo-risposta, che, tra l’altro, attraversa tutto il comportamentismo, la vita quotidiana, l’esperienza mistica, perchè anche noi godiamo della grazia, magari nascosta, di una contemplazione più profonda. Con questa potrebbe cambiare anche il nostro modo di operare, perché la sollecitazione ad agire, non verrà dal nostro impulso, imbrattato da orgoglio, ma dallo Spirito di Dio.

(Conversazione tenuta presso il Rotary Club Vicenza Berici, il19.06.12)