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Dio distante?

Quando mi unisco a coloro, che recitano le preghiere liturgiche, soprattutto nella liturgia delle ore, mi sento a disagio.
Uno dei motivi è la non coralità della recitazione, che dovrebbe essere lenta e scandita, come è ovvio e come risalta all’orecchio di chi è un po’ educato alle manifestazioni musicali.

Però un altro, più importante motivo di disagio è la dissonanza tra il Vangelo e le traduzione a spanne dei testi dal latino (che è già una traduzione) in italiano.

Il primo inciampo è provocato dalla prima frase:”O Dio, vieni a salvarmi!”. Dovrebbe essere la traduzione del “Deus, in adiutorium meum intende!”

Il latino parla di aiuto. L’italiano di salvezza. Il latino è un richiamo ad avere più sollecitudine (evidentemente la frase è veterotestamentaria). L’esortazione alla sollecitudine non si armonizza con quel Padre che sempre ci segue e che conosce , secondo il Vangelo, le nostre necessità, prima ancora che apriamo bocca. Non è Dio, che deve essere sollecito, ma siamo noi che dobbiamo accorgerci della sua sollecitudine paterna, e lasciarla operare.

Però quello che più stona, e che nemmeno lontanamente si trova nel latino, è quel “vieni”.

Le mie ormai sbiadite conoscenze dell’analisi logica e di filologia terra terra, mi suggeriscono, che il “venire” è un verbo di moto. Cioè il trasferirsi da un luogo lontano a un luogo vicino. Da luogo a  luogo. La Bibbia mi dice che Dio non è in nessun luogo, perché è infinito, al di fuori delle nostre misure. Perciò non può “venire”, perché egli semplicemente “è”.

Se crediamo che debba venire, già lo collochiamo, per principio, a distanza. La preghiera è un prendere coscienza del nostro contatto con Dio. E la formula ce lo indica distante. Si può rimediare?

GCM 27.10.08