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Abba, papà

Abba, papà. Tutti gli interpreti dei Vangeli affermano che il termine aramaico “Abba” è un modo infantile di rivolgersi al proprio “paparino”.

Gesù aveva in bocca naturalmente questa parola: egli si sentiva sempre un figlio caro a un padre tenero. Questa parola confidenziale era da lui espressa in pubblico e nella preghiera. Anche noi, se ricordiamo con affetto nostro padre, lo designiamo come “mio papà”.

Finalmente, nella preghiera spontanea, lo chiamiamo “papà”. Finalmente, dopo tanto contemplare la sua bontà, come ci è esposta da Gesù nel Vangelo. La dolcezza di tale parola riempie il cuore durante la preghiera.

Difficilmente questa facilità affettiva ci esce di bocca, quando parliamo del nostro papà in pubblico: egli allora diventa “Padre” ed è già grande ventura, se si riguarda   Dio, il mantenere il Padre, e non scivola   nel Signore, o nell’Onnipotente.

Gesù abituato all’”Abba” quando parlava di sé si definiva sempre “Figlio”. Anzi tendeva a ritornare bambino e questo ritorno lo indicava a tutti: “Se non ritornerete bambini...”

Eppure questo “papà” ci stimola ad entrare nell’atmosfera familiare: figli tutti di un solo papà.

Spesso immagino un gruppo di persone, che, quando si radunano, parlando di Dio, parlino del loro papà. Una comunità fraterna di fatto, non paludata soltanto con il nome di fratelli. Le barriere tra di noi scomparirebbero. Perfino nelle famiglie credenti, se il padre diventasse Andrea, la madre Gabriella, e i genitori (non padri) si unissero ai figli, parlando dell’unico papà, si avvererebbe quel “c’è un solo padre”.

GCM 30.11.06