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Figli riconosciuti

Noi siamo “figli nel Figlio”. La sua stessa figliolanza si comunica a noi. Figli nel Figlio, possiamo essere figli di seconda categoria, figli di stranieri, che sono ai margini come figli adottati?

Odo persone che, convinte, dicono: “A me basta entrare in Paradiso per il rotto della cuffia”. Un Paradiso, nel quale si entra di soppiatto, come un portoghese in uno stadio di calcio!

Purtroppo la parola “figliolanza” (far parte della figliolanza) - uiothesia in greco -  è interpretata come adozione, e non come riconoscimento. In realtà il termine (essere costituito figlio) indica il rito di riconoscimento di un padre, che “ponendolo” (tithemi) sulle sue braccia lo riconosce proprio figlio, membro effettivo della propria famiglia.

Presso i Romani, per un padre l’atto di riconoscimento era applicato a tutti i suoi figli, sia quelli avuti dalla moglie, sia quelli avuti dalla schiava: figli suoi alla pari.

Il latino traduce la parola greca (uiothesia) come “adozione”, e l’italiano gli tiene dietro.

Eppure nella lettera ai Romani (8.15) Paolo contrappone “figliolanza” a “schiavitù”. Spirito di figli, contrapposto allo spirito di schiavi. O figli o schiavi. Altra categoria non esiste.

Lo scambiare il riconoscimento con la mera adozione, indica che “noi che siamo tutti fratelli” davanti all’unico Padre, diventiamo membri tollerati nella famiglia di Dio. E allora con quale spirito possiamo dire a Dio: ”Padre nostro”?

Si sa che i figli adottivi soffrono nella ricerca dei loro genitori naturali. Se veri figli di Dio, stiamo cercando gli altri genitori?

Mi piacerebbe molto se nelle nostre catechesi non comparisse più quel “figli adottivi” che tanto umilia e disamora.

GCM 12.09.12