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Vedere e credere

Beati quelli che crederanno senza aver visto.

E’ una chiara beatitudine rivolta a noi. E noi ci sentiamo davvero beati?

Forse la nostra è una religione atea, una religione senza fede. Capace di preghiere, di credo recitato, di riti, di onestà e di opere buone sociali, ma incapace di fede, ossia del prendere con serietà il nostro contatto con Dio, il suo amore per noi, e il nostro autentico desiderio di amarlo. Conseguenza: la sua beatitudine non ci raggiunge.

Credere senza vedere è radice di beatitudine. Essa non è soddisfazione del tatto, ma slancio umile verso Dio, quel Dio che si fa toccare, quando si presenta a noi, come Gesù Risorto agli Apostoli.

Dio non si nasconde, perché vuol farsi vedere. Pur di farsi vedere e toccare Dio si è umanizzato, incarnato. “Noi vi comunichiamo ciò che abbiamo veduto e toccato” scrive l’autore della prima lettera di Giovanni “affinché la nostra gioia si riempia”.

Dio è arcano, non nascosto. Per prendere contatto con lui, i nostri mezzi di percezione non sono sufficienti. Oppure sono soltanto un primo approccio alla fede. Dopo che abbiamo fatto di tutto per accostarci a Dio e per contemplarlo, si deve lasciare a lui il compito di mostrarsi.

Noi non scoviamo Dio nel suo nascondiglio, ma è lui che, con il suo Spirito, ci abilita per vedere la sua luce. Perché vedere Dio e “restare vivi” è un suo dono, non una nostra conquista mistica.

Disporci al dono richiede l’umiltà del povero che chiede e attende. L’amore generoso di Dio, che ama il povero e desidera sostare con lui, interviene per rendere felice il povero.

GCM 03.07.06