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Obbedienza?

 
Nella letteratura claustrale si leggono anche facezie.
Alcune riguardano l’obbedienza del monaco o del frate. Il frate è scambiato come un fante di leva, quello del conosciuto “Signorsì, sissignore!”. Un chiaro esempio di obbedienza radicalmente virtuosa, è quello dell’orto. Per saggiare la vera obbedienza al “superiore” (sì, proprio “superiore” è detto, forse in armonia con quel “non essere tra di voi nessun padre, perché l’unico padre è uno ed è quello dei cieli”!), al novizietto veniva imposto di piantare i cavoli con la palla sotto terra e le radici all’aria. Se non obbediva dimostrava di non avere vocazione per lo stato religioso (nel quale tutti erano scemi?).
Venne poi anche la dizione che il vero religioso doveva essere sottomesso “perinde ac cadaver”, proprio come un corpo morto nelle mani di chi comandava (e chissà quali mene aveva fatte per essere costituito comandante).
Qualche santo intelligente, come S. Francesco, indicava di obbedire ma soltanto se il comando non fosse “contro la sua anima o contro la nostra Regola”. Indicazione chiara: non contro la propria vita. Ma ecco la solerte buona volontà, che esemplificava quel “contro l’anima” con il dire che, per esempio, se era comandato di bestemmiare.
In realtà era un “contro la costituzione umana di esseri intelligenti”. L’obbedienza non doveva presumere di annientare l’uomo. Dove andava a finire quel “rationale obsequium” della Scrittura?
Gesù non obbedì mai a ciò che gli imponevano clero e scribi, perché non confondeva la “volontà del superiore” con la “volontà di Dio!”, unica capace di conoscere l’uomo.
29.12.18