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Finalmente

Mi viene da sorridere. Oggi tutti, anche i frati, sono contenti per il vescovo di Roma, Francesco. Tutti sono avvinti dal suo modo semplice di usare le frasi della convivenza umana quotidiana - come il buongiorno e il grazie - la sua libertà da certe consuetudini diventate leggi, perfino leggi liturgiche.

Sorrido di cuore, perché anche lui fa le stesse cose che io ho fatto da sempre.

Da sempre ho dato il buongiorno, la buonasera, il buonpranzo. Mi sembravano ovvietà. Eppure...

Quando insegnavo nei nostri seminari, usavo il buongiorno e la buonasera. Però l’educatore responsabile mi accusava per il “secolarismo”, ossia per la mia non clericalità, e raccomandava ai ragazzi di non imitarmi, di non cadere in una infame secolarizzazione, tanto che si sentì leggero, quando io smisi di insegnare in quel seminario.

Quando entro in ritardo nel refettorio, impedito di essere in orario per impegni di lavoro, grido sempre il mio buonpranzo, buonappetito, buonacena. Ma nessuno risponde con un grazie, anche perché troppo immersi nel divorare (sì, spesso nei conventi si divora, non si mangia, dal momento che primo, secondo e frutta si consumano in dodici minuti, ancor più breve di certe messe, che si bruciano in un quarto d’ora).

Nei conventi raramente si ode un “grazie” o un “per cortesia”. Educazione alla serietà!

Vedo il vescovo Francesco, che scansa più di una norma liturgica. Un superiore ha chiamato un visitatore ufficiale da Roma, per proibirmi di dire messa lentamente, e di porre l’Eucarestia alla portata di tutti.

O vescovo Francesco...  aiutaci tu!   

GCM 18.03.13