Qualcuno mi invia una lettera, di sua spontanea volontà. Io sono obbligato a rispondere? Sì, se la lettera l’ho chiesta io. No, se la lettera non l’ho chiesta.
Non è d’obbligo, può essere di cortesia o di opportunità.
Ci sono forme di “aggressione” quando richiediamo (e talvolta con violenza o con insistenza) una risposta da chi non è obbligato a rispondere.
La più piccola e più consueta violenza si nasconde nel troppo consueto “Come sta?”, quando si incontra una persona. È una formula che sembra un interessamento per la persona che si incontra, eppure è anche un “costringere” la persona a svelare i fatti suoi. E se una persona intende tenere per sé lo stato della propria salute, per comunicarlo soltanto al medico o a un amico?
Una frase sinonimica è quando una persona, incontrandomi, mi chiede: “Tutto bene?”. Che cosa rispondere: “Sì”, “No”, “Così e così”, o “Bada ai fatti tuoi”? Oppure vestirci di un semplice silenzio sorridente?
O anche rilanciare un ironico: “E lei?”.
Questi piccoli tentativi di “aggressione” diventano più grandi, quando si è richiesti di altre cose: “Come va il lavoro?”, “Tua moglie ti molesta ancora?”.
Alla base del comportamento con altri, credo stia il rispetto: non so come senta l’altro la mia domanda, quando mi imbatto in una persona che non fa parte della cerchia dei miei famigliari. Se la mia conoscenza dell’altro è assodata, e se so che all’altro fa piacere il mio interessarmi di lui, allora tutto è semplificato.
25.11.14