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Osiamo dire

Nelle formule di introduzione al Padre Nostro, durante la Messa, incontriamo la frase: “Osiamo dire”. E’ quasi un chiedere scusa per azzardarci a parlare con colui che Teresa d’Avila indicava come “maestà”. Sembra che dobbiamo presentarci da pezzenti.

Io ho sempre sentito una stonatura in quella frase. Poi i liturgisti hanno trovato una frase più semplice, virando, almeno in parte, utilizzando un semplice “diciamo”. Sarebbe bello superare, sempre e ovunque in molte parti della liturgia imposta, ogni atteggiamento che includa un “osiamo”. Possiamo quasi dire che si tratta di onestà intelletuale.

Perché osare, se il Padre ci ha voluti suoi figli? Se ci vuole figli, non lo fa per scherzo. Ci vuole figli. E il figlio “osa” parlare solo con un padre severo o regale. In famiglia, il nostro parlare non usa il Lei o il Voi (come nelle famiglie nobili del Cinquecento), ma il semplice “tu“.

Siamo figli di Dio non perché abbiamo acquistato o pagato la figliolanza, ma perché lui ci vuole figli.

Siccome il Padre ciò che vuole lo realizza, noi siamo figli davvero.

Conseguentemente, “la fiducia e la libertà di figli” nel parlare con il Padre, non è un lusso concesso a carcerati castigati, ma una semplice situazione dinamica di figli.

Perché “osare” di chiamare Padre, colui che è davvero Padre? Perché “osare” di parlare da figli, dal momento che siamo autentici figli?

La confidenza con il Padre, nella preghiera e in ogni ambito della vita, è la conclusione spontanea e necessaria del nostro avere piena coscienza di esser figli.

Forse è da chiederci: perché abbiamo paura di sentirci figli, di viverci figli, di pregare da figli?

GCM 29.11.13