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Analogia.

Quando pensiamo a Dio e parliamo di lui, è naturale usare l’analogia. È pericoloso e improprio appiccicare a Dio le nostre idee, quelle desunte dalla realtà che viviamo e che ci circonda.

Gesù lo sapeva bene, e utilizza il linguaggio parabolico, non per “avvicinarsi” ai semplici, ma principalmente per esigenze di verità.

Il Regno dei cieli è “come”. Analogia, perché è impossibile esprimere con parole finite una realtà infinita. Realtà sì, ma di altre misure che non quelle del mero quotidiano.

Nell’analogia, nei confronti di Dio, resteremo per tutta la vita, e ogni intuizione anche scritturistica, acclude sempre il senso analogico. S. Giovanni, nella sua prima lettera, afferma che anche per noi è riservato il vedere Dio a faccia a faccia, ma non ora. È certo il nostro immergerci in quella che i teologi definiscono “beatissima visione”. Intanto la fede ci conduce, passo passo, fino alla soglia della visione, soglia che viene superata con la morte.

Già la analogia ci permette di scoprire sempre nuovi lati intuitivi su Dio. Quando ripercorriamo le parabole di Gesù, troviamo in esse sempre nuove sfaccettature del mistero, nascosto nei secoli in Dio. L’analogia, soprattutto nel cuore di un credente, non è un elemento fisso, indicato una volta per sempre. Anzi, l’indole stessa del discorso analogico è quella di essere mobile: già e non ancora, vedo questo, ma l’oggetto si muove.

È la bellezza della analogia della fede, quello di essere sempre cangiante. Ogni giorno si scopre ciò che prima non si era visto. Per quanto concerne la fede, è impossibile arrestare, con Ghoethe, l'attimo fuggente perché è bello.

10.04.16