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La favola di Giobbe


       Giobbe è un libro della scrittura scritto da un disperato, che non porta agli estremi del suicidio la propria disperazione. Giobbe invoca la morte, ma non se la causa. Nel sottofondo c’è un saldo legame con Dio.

     Infatti tutto il libro è un continuo lamentarsi e con gli uomini e con Dio. Il lamentarsi con Dio, è chiaro indice di legami con Dio: è, alla fine, un atto di fede. Giobbe espone agli uomini e a Dio la propria sofferenza.

       Gli uomini nella loro miopia, forse nell’intento di aiutarlo “nella fede” aggravano il suo dolore. È un aggravamento condito di teologia. Solamente un giovane si stacca dal modo di pensare e di aggravare dei “saggi teologi”, perché per lui la sofferenza è sofferenza, che solo la speranza può sostenere e perfino alleviare.

      Giobbe percorrendo tutto il cammino della sofferenza e non pretendendo la scorciatoia del suicidio, alla fine si incontra con Dio, e, incontrato con lui, ridimensiona la prospettiva depressiva e riacquista la vita nella sua pienezza originaria.

     Sappiamo che Giobbe è narrato in un libro non storico, ma solo profondamente didattico. È una favola che indica un percorso costruttivo e liberatorio, idoneo a chi patisce. È una specie di aiuto, ispirato alla realtà di Dio, offerto ai sofferenti e ai depressi. Una favola, cruda e pesante, eppure condotta verso un lieto fine.

     Oggi gli specialisti lamentano che ai bambini sono state tolte le favole, quelle parlate, che i bambini poi possono immaginare a occhi chiusi, senza tenerli aperti prigionieri della TV.

     Magari potessero prendere spazio, tra le favole, i racconti del Vangelo!

     30.09.14