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Giovedì santo in periferia

Sento uno stridore: Papa Francesco, il Giovedì Santo, si reca in piccole comunità, per celebrare con la gente, con i piccoli, gli sfortunati. La curia vicentina invece sta per imporre di accentrare tutto il Giovedì Santo, attorno al duomo, al Vescovo.

Si passa dall’”Andate” di Papa Francesco, al “Venite” vicentino. Si nota almeno una qualche distanza di prospettiva: dal dono alla richiesta. Forse si dimentica che l’ultima cena si realizzò in un cenacolo, ossia in un raduno intimo, familiare. L’intimità nel Giovedì Santo ha il suo significato.

Non si tiene conto che le piccole comunità dislocate hanno le loro necessità e i loro limiti. Tra gli altri, il limite della gente che fatica a muoversi e che perde l’occasione di grazia.

Ancora una volta il prevalere dell’organizzazione sull’esigenza della carità. Ma che cosa si vuol raggiungere?

Un numero maggiore di presenze? Se è così, le periferie resteranno distanti. Un senso dell’importanza centrale del vescovo? E così lui non va in cerca delle pecore, come il Papa. Un significato più profondo del Giovedì Santo? Sì per l’organizzazione, ma certamente no per la carità.

Papa Francesco, che non è certamente tifoso delle cerimonie solenni, trasferisce il vero senso del rito non nell’esteriorità dell’estetica (è poi estetica?) della cerimonia, ma nel cuore della carità.

Papa Francesco, fin dai primi attimi del suo muoversi, lasciò di stucco i cerimonieri, che avevano pronti per lui i bardelli principeschi. Perché i vescovi non cominciano a lasciar di stucco i cerimonieri? Anzi a togliere di mezzo quel rimasuglio pretensiozo del cerimoniere di corte? Tanto più che i cerimonieri si sentono così importanti da imporre comportamenti anche al papa. Forse un po’ meno a questo Papa.

09.04.14