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L’amo e l’ammazzo

Si parla oggi di quel conduttore televisivo inglese, che dichiara di aver ucciso il suo amante omosessuale, malato di AIDS, e ormai in stato irreversibile.

A parte la verità del fatto. Infatti condurre rapporti intimi con un malato di AIDS, facilmente causa un contagio dell’infezione.

A parte il suo dichiarare di non voler spiegare dove e con chi il fatto è avvenuto, ciò che anche una semplice indagine di giornalismo gossip può svelare.

A parte la credibilità della confessione fatta in pubblico, dopo molti anni e durante una trasmissione sull’eutanasia.

A parte l’efficacia della modalità dell’uccisione.

A parte molti altri particolari, che sono tecnicamente rilevabili, e le incongruenze evidenti perfino a un’intelligenza come la mia poco esperta in molti campi e soprattutto nel settore della criminologia, mi soffermo sulla motivazione addotta per coonestare l’atto criminoso: “L’ho ucciso, perché volevo dar termine alle sue sofferenze!”.

Se il motivo è questo, perché non farlo prima? Soffriva anche prima.

Ma l’affermazione è corredata da un “perché l’amavo”. Come dire: “L’uccido, perché l’amo!”.
Un amore, vero o falso, naturale o indotto, che porta ad uccidere l’oggetto dell’amore.
Entriamo nell’assurdo. La verità è semplice: l’ho ucciso, perché volevo liberarmene. E se questa non è la verità nuda e cruda, essa deve avere delle affinità con questa.

Anche noi ricordiamo una grande morte unita all’amore. Una morte subita, non provocata, per amore; un sacrificio per non sottrarsi all’amore per gli uomini, come realizza un  grande profeta, un grande uomo, un immenso Dio: Gesù.

GCM 18.02.10