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Claustrofobia?

Se una persona è costretta in una situazione, che non sopporta, reagisce in molte maniere: ribellione aperta o subdola, depressione, suicidio, claustrofobia, aggressività sui compagni di prigione, e altre maniere che costatiamo nei matrimoni imposti, nelle carceri, in fabbrica, nell’esercito e nei conventi.

Conosco un caso di un  frate, che era entrato in convento, attirato da uno zio, persona molto influente in un istituto. Egli non era di intelligenza molto profonda e più di qualche volta era spinto avanti per non opporsi, anche inconsciamente, allo zio celebre. Indirettamente egli chiedeva di essere allontanato, grazie a continue malattiette, che erano interpretate come conseguenza di una costituzione gracile.

Ma la sua implicita richiesta non fu mai esaudita e... rimase frate per sempre, come direbbe il Manzoni.

Spesso chi si sente compresso in una situazione non accettata, fa di tutto per uscirne e crea reazioni diverse. Chi vuol uscire, tentando l’alto: ed ecco l’ambizione carrieristica. Chi uscendo di lato. E chi restando sotto, minando se stesso e l’ambiente.

La persona, di cui ho il ricordo, ha creato una ben visibile forma di claustrofobia (termine esatto nei due significati). Non dormiva la notte, scappava dalla cella per andare in locali più vasti e più aperti, nutriva aggressvità continua (diretta o tramite sarcasmi) verso i colleghi più deboli o più dotati, tirava a lungo nel compiere le sue mansioni, utilizzando queste per la sua distruttività, poneva presso tutti in cattiva luce i colleghi. Un bisogno continuo di distruggere l’ambiente nel quale era stato costretto, per vivere, a fermarsi.

GCM 25.04.10   -  pubbl. 23.07.10