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Poter colloquiare

Ascoltare è bellissimo, ma non sempre agevole. Ascoltare è, prima di tutto, non aver nulla da dire. Sembra ovvio, ma ovvio non è.

Diceva un giovane, che aveva accostato parecchi psicologi: ”Ho avuto l’impressione che buona parte di loro fosse occupata ad applicare il manuale, ma uno solo si è accorto di me e si è interessato a me, e perciò con lui ho iniziato ad entrare in un vero colloquio”.

Anche a me sembra che alcuni psicologi siano dei  “tecnici”, che rovesciano sulle persone quanto hanno appreso, senza mettersi in ascolto non di un “caso” ma di una persona. Mi sembra che siano analoghi ai moralisti, che “risolvevano i casi di morale”. I “casi” si possono mettere in fila, allinearli, farne una categoria. Le persone sono uniche, e, anche quando hanno delle somiglianze con altre persone, sono sempre e soltanto se stesse.

Mi fanno sorridere coloro che, vedendo un bambino o una bambina, esclamano: ”Tutto suo padre; tutta sua madre!”.

Chi ascolta una persona, che si rivolge a lui, per esprimere una difficoltà o una ricerca, non sia preoccupato di “risolvere il caso” (per non fare brutta figura...). E alcuni sono pronti a indicare la pagina del manuale da cui trarre la diagnosi e la procedura. Questo modo di procedere non bada a chi sta davanti, ma a se stesso, per rassicurarsi di essere nel giusto.

Perché non ammettere serenamente che nessuno di noi è destinato da Dio o dal destino a risolvere le situazioni degli altri? Chi di noi ha mai risolto definitivamente i propri problemi? E pretendiamo, per professione certificata da una firma sul diploma, di essere capaci di risolvere le difficoltà di altri. L’unica offerta che possiamo donare, se ci riesce, è quella del semplice ascolto.

GCM 28.07.12