12.06.12
I deboli possono gioire? Oppure devono solo e sempre piagnucolare?
Ci fu una donna, che si dichiarava abbietta, inconsistente. Che era povera e affamata, che era umiliata. Ragazza madre, che stava per essere ripudiata dal fidanzato, campagnola del borgo più dileggiato di Galilea.
Dal cuore di questa donna è uscito l’inno di ringraziamento, che ogni sera ripetiamo con il cuore inondato di palpiti che si rinnovano.
Il Magnificat.
La donna riconosce la propria debolezza, il proprio nulla. E proprio dal profondo della coscienza del proprio nulla, sgorga la gioia dell’inno!
La debolezza è vista da Dio. Proprio perché Dio ha guardato la bassezza della schiava, tutte le genti la esalteranno, la riconosceranno beata. E’ l’elogio più puro della debolezza, e perciò la beatitudine raggiungerà, dilatata, nello spazio e nel tempo, tutte le genti.
L’inno è degno di abitare nella casa dell’umiltà. Un inno che guarda in faccia Dio, direttamente. Il mio cuore riconosce la grandezza di Dio, che è la mia salvezza.
Il debole non è gravato da letteratura, da nobile teologia, da voli pindarici: cose di cui si gloriano le persone ammalate di accademia. Il debole, il povero, il disprezzato, alza l’occhio dalla sua prostrazione e s’accorge immediatamente di Dio, che fa precipitare il ricco e innalza il povero, riduce a ben poca cosa la ricchezza sposata fatalmente alla morte, e riempie di grandezza il povero, che già possiede il regno di Dio e l’eternità.
L’elogio della debolezza si confonde, in Maria, con la gloria di Dio, di cui è contagiato il povero, il debole!
19. 05.12