Un tratto della lettera agli Ebrei, disegna il prima e il dopo Cristo nei rapporti dell’uomo con Dio.
Prima fulmini, tempeste, fragore nel presentarsi di Dio, tanto che Mosè ne ebbe paura, e che il popolo voleva che Dio non parlasse più.
Dopo, accostamento al cielo, agli angeli, a Gesù, il Salvatore. Una familiarità inaudita con Dio.
Tra il popolo, che ancora crede, una infiltrazione di Vecchio Testamento ancora persiste, anche grazie all’influsso del pelagianesimo penetrato nella chiesa: infiltrazione di paura. La paura di Dio fa peccare, mentre l’amore getta fuori ogni peccato.
Le paure non soltanto deteriorano la psiche e la conducono negli errori, ma soprattutto inquinano il rapporto con il Padre e lo falsano.
Per superare la paura di Dio, è necessario permettergli di penetrare in noi.
La maggior parte delle paure scompaiono, quando addomestichiamo, con la pratica e con la riflessione, l’oggetto delle paure.
La stessa dinamica psichica, con la quale vinciamo la paura degli oggetti o delle persone, vale anche per la paura di Dio. Frequentando Dio, l’Eucarestia, il Vangelo, le nostre paure di Dio si attenuano, lasciando spazio alla confidenza e all’amore.
Abituati a Dio, noi lo si ama.
Abituarci a Dio, non alle pratiche religiose prive di Dio. Abituarci al contatto con Dio, non alla formalità di certe preghiere e di certe liturgie. Cuore e non riti, se non quel tanto di riti che riesce ad alimentare il cuore.
Anche i tuoni dell’Oreb toccavano i cuori degli Ebrei, ma per spaventarli. Mentre la consuetudine con Gesù tocca il cuore, ma per amare.
GCM 03.02.11, pubblicato 02.06.11