Pianto e serenità

La recita del dolore è la recita del lutto. Anche chi non prova dolore per la morte di una persona, deve recitare quella parodia sociale del dolore, che è il lutto.

Da sempre si svolge il pianto del lutto. Le prefiche che strillano (e Gesù le fa calmare nel suo tragitto verso il Golgota) o gli annunci funebri sul giornale, o l’assistenza della messa da morto anche da parte di coloro che se ne infischiano della fede, o le solenni manifestazioni funebri, davanti al municipio.

Sono tutte recite, tutti riti, tutte convenienze per indicare un dolore, che non c’è.

Putroppo si trova perfino qualcuno che si affligge, perché, quando tutto l’ambiente finge il lutto, egli invece non si affligge. Il dovere di soffrire, quando l’ambiente circostante si aspetta che quel tale soffra. Una specie di legge della sofferenza nei pressi di un cadavere.

Eppure c’è qualcuno che non obbidisce alla consuetudine del dolore. Si sente libero di soffrire quando e come gli garba e gli comoda.

Avviene in piazza, quando i bambini mimano una nenia funebre, e i compagni non piangono.

Chi non piange non ha cuore? E’ sempre così?

Non piange chi non si sente in colpa verso il defunto, per averlo amato, o almeno aiutato, durante la vita.

Non piange, colui al quale il defunto è del tutto indifferente.

Non piange chi dalla fede è assicurato che il defunto non è defunto, ma risuscitato. Chi riconosce nella morte l’ultimo dono di Dio ai viventi nel tempo. Chi è certo che il defunto non solo non è perduto, ma è guadagnato in una nuova dimensione: la stessa di Gesù Risorto.

GCM 29.04.11, pubblicato 07.07.11