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Psicodiagnosi del giornalista

I giornalisti  - o anche ogni persona! - sono i più esposti alle psicodiagnosi.

Una volta si diceva: dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Oggi è più chiaro dire: dimmi come parli, come scrivi, di che cosa parli e di che cosa scrivi, e ti dirò chi sei.

La diagnosi si fa chiara di più, quando i giornalisti ascoltano una persona importante, come il Presidente della repubblica, il Capo del governo o il Papa.

Questa persone tengono un discorso di ampio respiro e a livelli differenti, partendo da Dio e dall’eterno fino al rispetto delle formiche e il comportamento dell’oggi. I giornalisti ne scelgono un passaggio e lo pubblicano, trascurando però la situazione più intelligente che è il contesto, e obbedendo al padrone (proprietà e direttore responsabile) e al proprio costume interiore. E così manifestano le proprie preferenze, e in queste il livello del proprio vissuto, che si esprime negli interessi nutriti.

Da qui la psicodiagnosi più agevole e più primitiva. Tu sei quello che tu scrivi. Quando pretendi l’impossibile obiettività, scegli personalmente l’oggetto che più ti aggrada o quello che sei certo piacerà ai tuoi due padroni: il direttore e la brama del lettore.

Sei quello che scrivi, come sei come tu scrivi. Quando da giovani studiavamo la stilistica, ci ricordavano che lo stile è l’uomo.

Certo che non è indolore essere esposto alla diagnosi della psicologia, quando ci si esprime. Ma, mentre il giornalista recita la sua parte, non sa chi è che lo giudica: non solo Dio, ma anche almeno qualche uomo.

GCM 25.03.09