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Perdono nobile

Alla base del nostro perdonare si salda il perdono di Dio.

La parabola del padrone che si commuove e perdona il servo, e di questo che non sa perdonare al collega, è emblematica, sebbene nel Padre Nostro si esprima anche il reciproco: perdonaci, perché noi perdoniamo. Ma non sono posizioni contraddittorie, perché anche il nostro perdonare è reso possibile soltanto sotto lo stimolo e l’influsso dello Spirito di Dio.

Alla base c’è sempre lui, il Padre, che spinge sempre a perdonare, perché conosce le nostre grettezze, fonti della nostra ritrosia a perdonare.

Il perdonare, come l’amare, non ha confini o limiti nel tempo. Perdonare una volta per tutte è impossibile. Infatti, la stessa persona che ci ha offeso, può nutrire la voglia di offenderci nuovamente; e dentro di noi può sempre riaffiorare il ricordo delle offese ricevute. Quindi perdonare e riperdonare. Gesù non erra, quando indica di perdonare settanta volte sette, quattrocentonovanta volte, con l’eventuale aggiunta.

Perdonare lungo tutta la vita. A bene osservare, non è un mestiere da disprezzare: esso è nobiltà effettiva.

Forse per farci ricordare la nostra nobiltà divina, il Signore permette lo stimolo dell’offesa altrui. Ed è nobiltà autentica.
Di Dio è la misericordia e il perdono: perciò dei figli di Dio è l’esercizio del perdono.

Vista la realtà sotto questo aspetto, c’è da ringraziare Dio per le offese ricevute, perché ci ridestano il senso della nostra nobiltà. Non la nobiltà vacua, che deriva dal nostro sentirci superiori all’offensore, ma la nobiltà piena nel sentirci figli sottomessi al Padre.

GCM 17.03.09