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Fissismo e disperazione

Nella mia esperienza di vita conventuale mi sono imbattuto in molti caratteri: il pauroso, l’autistico, il pretensioso, il pio, l’aperto, l’ossessivo per le leggi, l’affrettato a dire le preghiere, il sarcastico, ecc...

Il campionario, naturalmente, è dotato di centinaia di tipi.

Con alcuni di questi caratteri si vive più a lungo, e quindi l’occasione di osservazione e di studio è frequentissima.

Stavo riflettendo sul cumulo di disperazione profonda, che giace nella psiche di chi vuol ridurre gli altri a comportarsi secondo i suoi criteri di disciplina. Egli vorrebbe che il mondo attorno a lui, si muovesse (o meglio si arrestasse) tanto da non infastidirlo. Il guasto si aggrava, quando questo sfortunato riesce ad avere un incarico, per quanto piccolo esso sia.

Si tratta della malattia della disperazione. Egli è disperato, perché non riesce più a cambiare se stesso, è giunto a una fissità senza prospettiva di un miglioramento, è incatenato dentro di sé tanto da non nutrire nessuna speranza di migliorarsi, e perciò pretende che gli altri si adeguino alla sua disperazione.

Se il disperato è un superiore, allora pretende di costruire una comunità disperata.

Comunità disperata, nella quale ogni iniziativa è bloccata. Dove manca la spinta al nuovo scorrere della vita, a nuove strade di verità e di apostolato, per fissare tutto e tutti in uno stagno fermo: qui prevale l’eterna osservanza delle leggi, la burocrazia, il soffocamento di ogni novità, che non sia quella imposta dall’esterno, dall’alto.

Chi ha senso dell’iniziativa, del sentire il mondo che cammina e vuol adeguarsi a questo cammino, è ostacolato e umiliato. Ecco la disperazione. Ed ecco pure la speranza?   

GCM 15.05.09