Nelle nostre preghiere, e, soprattutto, nelle preghiere liturgiche, troverei molto opportuno cambiare gli imperativi o gli ottativi, rivolti a Dio.
Sembra quasi che con gli imperativi, sebbene un po’ addolciti da un qualunque “per favore”, si voglia indicare a Dio un comportamento, quasi un richiamare Dio a se stesso, ai suoi doveri, o, almeno, alle sue prerogative.
Gli diciamo: ”Sii misericordioso!”, come se lui fosse misericordioso a scacchi: oggi sì, e domani no.
Gli diciamo: ”Guarda il tuo popolo” , come se Dio si fosse distratto nel leggere il giornale.
Gli diciamo: “Perdona i nostri debiti”, come se Dio avesse il registro del dare e dell’avere.
Insomma: fidiamoci di lui, riconosciamo la sua bontà, e non sollecitiamo una sua presunta pigrizia. E’ Padre?
Le preghiere, scambiate per un comando a Dio: “Fa’ questo!”, “Fa’ quell’altro!”, “Comportati cosi”.
Una bella preghiera è attuata da coloro che non sanno pregare. Non sanno come cominciare, quali frasi usare.
Eppure si affidano continuamente a Dio. Anzi, proprio il non saper pregare li induce all’abbandono a Dio.
Un’altra bella preghiera è quella di chi si ferma davanti al tabernacolo e dice semplicemente: “Eccomi qui”, e guarda tranquillamente il tabernacolo. E poi gli viene da dire: “E tu sei costì, e mi vedi, anzi mi guardi”.
Preghiere tutte che non impongono nulla e che ricevono tutto. Preghiere fatte solo dal respiro.
Preghiere profonde, che non sanno più ripetere nemmeno il Padrenostro.
Insomma preghiere.
GCM 26.10.10. pubblicato 30.11.10