La sapienza di Dio

13.05.12

Le dieci parole, ossia decalogo, furono presentate agli Ebrei per regolare la loro vita religiosa anzitutto, e il loro convivere civico e sociale. Noi le usiamo, chiamandole  i “dieci comandamenti”.

Conosciamo che le prime tre parole sono indicatrici di come stare davanti a Dio.

Non dobbiamo avere un dio di fronte a Dio. La dicitura indica l’unicità di Dio, altri non ce ne sono. Quel “un dio di fronte a me”, ossia un Dio concorrente, forse ricorda i due principi del bene e del male, posti sullo stesso piano nella nota dottrina di Zarathustra. Dio, Jahveh, non ha nessuno pari a lui che gli si opponga. E poi, solo lui, che è vivo e vero, sa amare. Gli dèi inventati dagli uomini non sono capaci di amare, perché non sono. Nessuna vita, nessun amore. Vita piena, amore pieno: è Dio.

La seconda parola ci indica il riposo. Lo stakanovismo è contro Dio, e molto ricercato dal padronato (non importa se statale o privato). Occupare la festa religiosa con il lavoro è patente bestemmia a Dio, che indica il suo riposo come modello per gli uomini. Il giorno del Signore coincide con il riposo. Il sollievo domenicale, il gioco, la conversazione è vivere Dio. La festa richiede il raduno che canta, e il canto della giornata luminosa. Riposare è adorazione, nel giorno festivo.

La terza parola ci indica di superare la stupidità. Non nominare il nome divino una cosa vana. Ossia non credere che sia dio l’idolo che è nullità (vanità e vacuità). E’ un richiamo all’intelligenza, perché eviti di stimare divine le cose che tali non sono.

Sono comandi? Oppure sono le indicazioni sapienti e sagge di chi conosce la misura dell’esistenza?

Alla sapienza di Dio noi ci aggrappiamo.

GCM 11.03.12