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Il pianto di Dio

Perché spesso ci affezioniamo al nostro mal di pancia? Se non è mal di pancia, è l’affetto alla nostra angoscia esistenziale, al nostro sottolineare il disagio di vivere in questa società, al nostro soffrire la disastrosa situazione politica, e altro.

Ci affezioniamo al disagio, perché, in qualche guisa, esso imprime un certo senso e significato al nostro inutile vivere. Noi così siamo sempre accontentati del e dal nostro piangerci addosso. Siamo troppo ricchi per non cercare questo tipo di passatempo, che riempie la nostra nullità.

Eppure la vita è aperta, ci sprona, ci invita ad altro. La vita sono i poveri, i diseredati, ossia il vuoto, che invoca ed attira, il vuoto che attende la nostra opera e, prima ancora, la nostra preghiera. Il povero invoca non soltanto Dio, ma anche i figli di Dio, ai quali Dio ha donato l’onore di donarsi agli altri figli di Dio.

E’ innegabile che questo essere attratti dall’abisso della povertà, ferisce ogni nostro comodo e insidia la nostra tranquillità e il nostro conto in banca. E con il conto in banca piangente trema la nostra sicurezza. Perché la sicurezza nostra non è in Dio, ma nella banca, nelle società di assicurazione.

E intanto il mio Dio, quello che io vorrei amare, sta piangendo nel povero. E’ vero sì che spesso anche il povero è tanto attaccato al suo mal di pancia, tanto da darsi al barbonaggio.
Ma non ogni povero è così. Dio piange nel povero proprio povero, non nel professionista della povertà, il quale, in ultima sintesi, non piange, perché l’esser povero è il suo guadagno e  la sua ricompensa. La povertà è la sua concreta ricchezza. E su di lui, come su di noi cade la parola di Gesù: “Guai a voi ricchi!”

Se Dio piange sul povero, consolando il povero, consoliamo Dio.

GCM 07.03.10  - Pubblicato 02.05.10