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 Indiarci

Leggo con gioia le parole di S. Caterina da Siena: “desiderando vederti con la luce della tua luce”. Qui si rivolge alla Trinità eterna, un mare profondo, in cui “più cerco e più trovo, e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti”.

Il vedere con la luce della luce di Dio, fa scoprire che “vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine”.

Questa immedesimazione a Dio, fa esaltare la santa. Dante parlava di un  “indiarsi”, divinizzarsi. Dio nell’essere da noi vissuto, ci assorbe tanto da immetterci nel suo stesso essere e nella sua stessa luce.

Per ora non sappiamo nulla di che cosa sarà fatto questo nostro indiarci. Evidentemente non ci disperderemo in Dio, come goccia d’acqua nell’oceano. Noi resteremo noi, eppure il penetrare Dio e l’essere da lui penetrati, influirà radicalmente il nostro modo di essere.

Tuffarsi nell’oceano di Dio, vedere lui luce tramite la sua luce: sono immagini, sforzi del cuore, preso in mano da Dio.

Partecipare di Dio. Come? Vedremo.

Probabilmente questo naufragare in Dio, può essere adombrato da quello che Giovanni XXIII definiva come “rivelazione primitiva”. Forse la tradizione induista conserva questo tuffo in Dio, interpretandolo come un perdersi in Dio. Difatti per gli induisti la creazione dell’individualità è indicata come movimento del tapas, una specie di caduta fuori dall’uno assoluto. Qualche cosa di simile troviamo anche in Plotino.

La salvezza ultima, secondo l’induismo, sta nel ritorno all’uno primitivo ( il brahama) per entrare in esso e disperdersi, perdendo l’individualità. E’ questa perdita di individualità, che Gesù Risorto nega, mostrandosi ancora persona.

GCM 30.04.09