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Liberi  nel  peccato

    Mi ha colpito una frase della lettera ai Romani, di S. Paolo. Essa è semplicemente descrittiva dei suoi tempi e dei nostri.
“Quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi in rapporto alla giustizia” (Rm 6,20).

    “Quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi in rapporto alla giustizia” (Rm 6,20).

    “Liberi in rapporto, verso la giustizia”. La giustizia, ossia la partecipazione alla vita di Dio. La libertà (proprio: eleutheroi) rende la vita slegata da tutto, purtroppo anche dalla giustizia.
Chi pecca, non è padrone, ma si rende schiavo del peccato.

     Eppure questa schiavitù rende liberi da altri obblighi, scioglie le opere e la coscienza dai dettami della giustizia. Ci si libera dai rimorsi, e non si sente nostalgia della giustizia. E’ una specie di tabula rasa riguardo tutto ciò che concerne Dio.
Per un credente si tratta dell’abisso oscuro. Per il non credente il raggiungimento della libertà: libertà di drogarsi, di rubare, di ammazzare, di stuprare. E’ l’ottundimento del senso morale, della sensibilità, della socialità. E’ la libertà oggi diffusa e propugnata da correnti di pensiero e da ideologie politiche.

    Per Paolo questa libertà, è conseguenza della schiavitù imposta dal peccato.

    Chi è nel peccato non possiede una coscienza etica? Un bisogno di giustizia?

    Il rimorso di coscienza è proprio di chi crede: è segno che ancora la fede è viva. Chi non crede non prova rimorsi, se non per non aver seguito fino in fondo la perversità, o per non aver accontentato totalmente le proprie tensioni egoistiche.
L’ottusità morale, conseguenza della schiavitù al peccato, è il destino cui si avvia grande parte del progressivo mondo occidentale... se Cristo non lo salvasse.

    GCM 25.10.07