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Riforme

Riformare la chiesa nel capo e nelle membra. Questa è una frase sempre viva e ripetuta. Anche durante il Concilio Vaticano Secondo.

La riforma: quella protestante, quella hussita, calvinista, anglicana. E, all’interno della tradizione cattolica, quella di Benedetto, di Francesco, di Domenico, e quella ufficiale dei concili ecumenici a iniziare da Nicea, e via via, di Trento e del Vaticano. Ne sorge il detto: ecclesia semper reformanda. Una chiesa che non può sedersi nella sua storia, ma deve essere incitata dalla propria storia medesima, se vuol essere fedele a Gesù, che l’ha voluta e la mantiene.

Sì, Gesù mantiene la sua chiesa: senza di lui sarebbe scomparsa da molto tempo, sotto gli assalti che le vengono mossi dall’esterno e dall’interno.

Nella continua riforma, è detto, “nel capo  e nelle membra”. Qui si annida una incomprensione. Chi è il capo di cui si parla?

Nel primo schema ufficiale in preparazione al Concilio recente, il Papa era indicato a parte, e poi si indicava la chiesa. Egli era posto, in qualche modo, sopra la chiesa. Però durante il Concilio si decise di trattare del Papa nella chiesa. Membro della chiesa, sebbene con una mansione particolare e molto delicata.

Così si affermò quello che S. Paolo aveva espresso chiaramente: l’unico capo della chiesa è Cristo. Lui il capo, la chiesa il corpo.

E allora se capo e membra devono essere continuamente riformati, Cristo è soggetto a riforme?

La realtà è che il capo della chiesa non può essere riformato, mentre tutto il corpo, papa compreso, deve essere riformato, perché tutto il corpo vive nella storia, che si evolve. Ecco perciò l’ambiguità insita in quel “riforma della chiesa nel capo e  nelle membra”

GCM 25.02.11, pubblicato 18.06.11