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Signore, pietà?

Mi è sempre dispiaciuta la traduzione dell’ “eleison” con un secco e arido “pietà”. L’eleison è pieno di affetto tra persone; la pietà è lontananza, è differenza di piano tra chi concede pietà e chi la riceve. Ho anche criticato il modo poco lusinghiero di tradurre il termine greco.

Perfino la liturgia latina non si è mai arrischiata a tradurre il termine, e con la Messa in latino, esso si è mantenuto greco, con tutte le implicazioni lessicali e contenutistiche, delle quali il termine è ricco.

Esso indica un rapporto di bontà, tra uomo e uomo, tra Dio e l’uomo. Già nel greco antico era intriso di commozione. Io posso aver pietà senza commuovermi, ma non posso trasmettere bontà senza che il mio cuore si commuova L’eleison include sempre l’affetto, la pietà non necessariamente include affetto, anzi talvolta nella pietà si nasconde un senso di superiorità del fortunato verso il disgraziato.

La messa dei Greci, dovuta a S. Giovanni Crisostomo, è punteggiata da questo termine. Eppure il rischio dei liturgisti si è affievolito, quando accanto al “Signore, pietà” dei nostri messali è posto, a chiare lettere, il “Kyrie, eleison”.

Certo ci vuole un po’ di tempo nel ripetere questa frase, prima che ne assaporiamo tutto l’intimo gusto. Ma una volta diventata nostra, diventa espressione umile e filiale verso il Padre e verso Gesù.

“Kyrie, eleison” diventa un sorridere affettuoso verso il Padre, perché sappiamo che ci vuol davvero bene, anche quando deve perdonarci.

GCM 22.01.10