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Oltre la riconciliazione

Ci è stato insegnato che il sacramento della penitenza è stato istituito e deve esser condotto alla stregua (per modum) di un tribunale. Ivi si istruiscono l’accusa e il giudizio di assoluzione o di non assoluzione. Davanti stanno un reo e un giudice.

Al giudice Gesù dice: ”Non giudicate e non sarete giudicati”. Il prete che giudica, quindi, potrà salvarsi?

Il sacramento oggi si definisce come “riconciliazione”. Riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Con Dio per il cuore, con la Chiesa per la disciplina. I due, o più, attori si riconciliano in Dio.

Si può prospettare anche un’altra visuale. Due che si rivolgono al Padre. Tutti e due hanno bisogno del sorriso tenero di Dio. Una persona prende coscienza e dichiara: “Padre, ho peccato contro di te; non son degno di essere tuo figlio”. Il peccato sembra degradarci da figli a schiavi.

L’altra persona si apre al Padre, per prima si lascia penetrare e investire della dolce misericordia di Dio. Non giudica, ma trasmette la misericordia del Padre, da cui è stata pervasa, e esprime l’abbraccio del Padre e la sua festa.

Due persone, due figli di Dio, i quali si lasciano invadere dall’amore di quel Dio, che conosce il cuore dell’uomo, sa di che misera tempra è suo figlio, penetra nel dolore del pentito e nella gioia del perdono.

Tutte le aggravanti del tribunale della penitenza sono dovute alla concezione umana del tribunale: accusa perfetta di specie e numero, fermo proponimento, paura della condanna. Se invece l’incontro è vissuto come ricupero di reciproco amore, le gravità esterne sono superate, per andare verso il cuore. Se il cuore ama e si sente amato, sperimenta una pazza gioia di non peccare, di non allontanarsi dall’amore.

GCM 02.03.10, pubblicato il 19.09.10