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Coraggio e spudoratezza

Uno degli scambi (moltissimi) di significato che si perpretrano oggi è quello tra coraggio e spudoratezza. Siamo talmente abituati al pressapochismo di semantica, che, quando vogliamo esprimere con chiarezza un concetto anche non scientifico, ci rivolgiamo alla lingua inglese.
     In un ambiente morale molle, come sta diventando l'Italia grazie alle conquiste civili (vedi aborto, divorzio, omosessualità, libertarietà sessuale, adulterio non punibile...) la spudoratezza, targata libertà di espressione, è un costume, anzi un dogma di etica laica. Per dare un senso etico alla spudoratezza (a casa, per strada, in TV) si proclama che le persone hanno il "coraggio" di mostrarsi per quello che sono.

E' tramontato il coraggio da applicare al "dover essere". Il coraggio della bontà, del sacrificio, dell'altruismo. Il coraggio di essere mosche bianche credenti, in un mondo di facile (non eroico) agnosticismo e di indifferenza morale e religiosa.
     Il coraggio di essere retti in una platea di storti.
Si richiede più coraggio (o, semplicemente coraggio), dentro una società saputella e bene, il dichiararsi cristiani, che non il dichiarare di seguire lo yoga, lo zen, il buddhismo.
     A diminuire il coraggio di dichiarare la propria fede o religione, si presenta anche un certo signor Chirac, che per obbedire a una perfetta laicità, impedisce di indossare simboli religiosi, quale il velo musulmano.
     Per l'uguaglianza tra i cittadini, il laicismo è categorico: niente crocifissi e niente veli.

E' l'uguaglianza laicista, che vuole tutti senza individualità specifica (un certo Stalin non voleva tutti compagni?). E uguaglianza verso l'assenza. Una vera libertà dovrebbe affermare l'opposto: ognuno è libero di esibire il simbolo religioso che preferisce. E' l'uguaglianza verso la presenza. Dalla Rivoluzione francese in poi, la Francia si distingue nell'abbattere le cose religiose.

GCM 23.02.04