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Descrivere e sentire

L'aridità spesso è generata dalla pretesa di descriverci e non di sentirci.
     Il descriverci, che spesso compiamo sia nel chiuso del nostro letto sia davanti a uno psicologo, ci pone a distanza da noi. Il descriverci si riduce, alla fine, a operare anatomia. Siamo l'oggetto del nostro pensare, e possiamo così evitare di rimanere con noi stessi.
     Il sentirci è un abbraccio di simpatia con noi stessi. L'essere con noi in modo così stretto da avvertire soltanto i palpiti del nostro vivere.
     Mentre il descriverci ci scosta da noi, il sentirci ci persuade a penetrare nella nostra casa.

Molte tecniche consigliano di sentire i muscoli, il battito cardiaco, il respiro, cioè prendere contatto con il nostro corpo. E' un esercizio positivo di "meditazione", eppure è molto incompleto. Esso rischia di escludere il sentire le mie idee, che invece servono per percorrere le membra fisiche e porre attenzione ad esse. Sentire le idee conduce a perderci in esse, senza formularle. E' l'introduzione alla contemplazione.
     Inoltre il sentirci soltanto fisicamente rischia di tenerci lontani dai desideri più profondi, quelli inesprimibili che tendono a perdersi in Dio. Quando la semplice parola "Dio" ci fa precipitare nel silenzio, allora ci sentiamo in tutto il nostro spessore, composto di carne e di infinito.

Un riverbero di questi due atteggiamenti, descrivere o sentire, lo ritroviamo nella nostra attività liturgica. Troppo spesso descriviamo Dio o l'azione dello Spirito, descriviamo il Vangelo o il rito, descriviamo le cerimonie anche osservate con rigore.      Ma sentiamo Dio nelle parole o negli atti?
     Sentiamo e facciamo sentire Dio nel riverbero dei nostri canti, delle nostre acclamazioni, del nostro muoverci o guardare? Le omelie sono Dio che trapela o fa trapelare il suo mistero fino a trafiggere dolcemente il nostro cuore, o sono pacchetti di speculazioni teologiche, che pretendono di descrivere Dio?

GCM, 21.12.03