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Parlare a Dio

Riesce molto più agevole parlare a Dio, che parlare di Dio. Gli sforzi di parlare di Dio si concentrano nella teologia o nella teodicea. E' tanto gravoso parlare di Dio, che molti pensatori moderni evitano ogni teodicea, dichiarandola un "argomento inutile", per non confessare la propria insufficienza.
     Non sono soli. Già qualche millennio fa, Buddha dichiarava insignificante parlare degli dei agli effetti della serenità umana.

Invece parlare a Dio è facile. Dirgli le cose nostre, i nostri dolori e le nostre gioie, i nostri desideri per godere di ciò che ci manca, ponendo in prima fila la mancanza del pieno godimento di lui. Parlare a Dio è pregare.
     Premessa del pregare è la convinzione (gioiosa!) che Lui c'è. Una convinzione che si deposita in fondo al nostro cuore attraverso molte sollecitazioni: l'analogia del semplice esistere (noi siamo, Lui è), che è una specie di ontologismo; la sublimità della natura; l'agire di chi ci sta vicino e ci aiuta; soprattutto la parola e la persona di Gesù.

Gesù ha facilitato il nostro parlare di Dio.
Egli infatti parla di Dio, ce lo mostra, ne rivela le qualità e l'amore. E, facilitazione estrema, vedere lui è vedere il Padre: chi vede me, vede il Padre.
     Anche la nostra preghiera, il nostro parlare al Padre, facilita il nostro parlare del Padre.
     Pregare è fiducia: quindi il Padre accoglie.
     Pregare è richiesta: il Padre aiuta.
     Pregare è lode: il Padre è felice.
     Nella preghiera conosciamo Dio in presa diretta. Ne usciamo rifatti, perché, durante la preghiera, qualche cosa di lui è passata in noi. La faccia di Mosé era splendente, dopo il suo contatto con Dio. Ecco il Tabor.

GCM,   26.08.03