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Presso la morte

Mi trovo presente a un corso per volontari del "Curare a casa": ossia volontari per seguire gli ammalati terminali.
     Precetto: non parlare ai malati di religione, ma prestare solamente una presenza umanamente valida.

Se il non parlare di religione, è una sana indicazione a non rovesciare sull'ammalato le nostre ansie religiose, a non costringerlo direttamente o indirettamente a subire un'intrusione che possa turbarlo, ciò è ottimo. Tra il volontario e l'ammalato , di solito, si instaura un clima confidenziale. Se, in questo clima, l'ammalato desidera confidare anche il proprio vissuto religioso o di fede, che cosa deve fare il volontario?

Se il volontario non crede, si ritira ed, eventualmente, cede il passo ad altri. Se è un credente, deve ritirarsi in onore del protocollo? Lui che si trova a godere della confidenza dell'ammalato, deve lasciare a un prete, magari antipatico, l'incombenza?

      Che cosa di più opportuno, per trattare le cose di Dio Padre, che non un clima familiare, confidenziale, creato tra ammalato e volontario?
     A mio parere - se il volontario è credente - dovrebbe essere affidata a lui "la cura ultima di un ammalato credente".
     Perché non possono un medico, un infermiere, un volontario amministrare l'olio degli infermi? Perché non possono portare il viatico?
     E poi: perché non possono assolvere quei peccati che l'ammalato confida?

Ricordo che la facoltà del perdono da Dio è conferita alla Chiesa nel suo insieme. Disciplina ecclesiastica e tradizione, oggi, la riservano ai preti.      Ma è privilegio fontale della Chiesa quel "rimettere i peccati" di cui scrive Giovanni.
      Nel Medio Evo c'era l'uso che se un cavaliere era prossimo alla morte e non ci fosse presente un prete, egli poteva confessare i peccati al proprio cavallo e sentirsi assolto.
     Forse un volontario vale più di un cavallo e di molti passeri.

GCM, 20.11.03