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Muore il cane

Non so come comportarmi con la mia ragazza. Ritorna sempre su un suo cruccio: non si dà pace per non essere stata diligente nel custodire il suo cane, che è morto perché morso da una vipera. Si sente in colpa, e rifiuta di udire ogni mio ragionamento, che la sollevi.

A. C. (Bl).

È difficile consolare chi non vuol essere consolato. Anzi il consolare una tale persona, la ripiomba in un tunnel senza uscita. Perché?

Prima di tutto è da notare il piacere indescrivibile che gusta questa persona, nell’essere accarezzata da parole dolci consolatorie da parte di chi ella trattiene vicino e lega con i suoi lamenti. Non è il dolore che finge di provare, ma le parole mielose che riceve, ciò che fa prolungare le sue geremiadi.

Il piacere si trasforma in autentico gaudio, se la persona che vuol essere consolata, non esprime apertamente la cosiddetta sofferenza, ma si mostra silenziosamente afflitta, e cade spesso in una serie di tacito eppure lampante “guardatemi quanto peno, e come sono brava e buona nel sopportare i guai!”.

Se approfondiamo lo sguardo oltre il facile vantaggio delle carezze consolatorie, ci imbattiamo in un’altra dinamica psichica più devastante.

Di solito, quando una persona si intestardisce nel girare attorno a una piaga vera o presunta, ma obiettivamente poco significativa come la morte di un cane, nasconde qualche avvenimento o qualche situazione psichica, che, se venisse a galla, provocherebbe un dolore insopportabile e davvero più cocente che la morte di un cane. È il caso di quella donna, che attribuisce il proprio tormento psichico al fatto che a dodici anni è stata “violentata” (dice lei, soprattutto in questi tempi nel quali parlare di violenza subita fa molto chic) da un coetaneo. Però si scopre che da cinquenne trescava con il padre, seduta a cavalcioni sulle sue gambe. Ella deve attribuire tutta le sua pena, e con insistenza, al coetaneo, perché non può sopportare di incriminare il padre, del quale era perdutamente innamorata.

Oppure il caso di quella moglie, che tormenta continuamente il marito, perché non sta sempre con lei (salvo a torturarlo, quando lui si ferma), e si ammala ed entra in situazioni isteriche. Le manca il coraggio (ed è comprensibile) di entrare con chiarezza nel proprio vuoto interiore devastante, a causa di violenze sessuali subite in famiglia quando era piccina. Tormenta il marito, perché soltanto così essa riempie in parte il vuoto interiore, che non vuol ammettere di avere. I suoi lamenti attuali, la dispensano dall’autentica sofferenza, che subirebbe, se affrontasse davvero il passato.

Tornando alla ragazza di A. C., l’intestardirsi nel sentirsi in colpa per la morte casuale del cane, la dispensa – o almeno la tiene lontana – dal guardare sue colpe o responsabilità genuine, accumulate nel passato o nel presente (è davvero contenta del suo rapporto con il proprio ragazzo?). La recita della sofferenza per il cane, nasconde una responsabilità più pesante, che lei non si sente di affrontare … almeno da sola.

In questo caso il consolarla non risolve il suo vero dolore, ma è un collaborare per continuare a mantenerlo nascosto. La verità rende liberi.

Febbraio 2006