*Lo scapestrato convertito:Francesco d’Assisi

                   CONVERSIONE DI S. FRANCESCO

                     DI  PADRE CELSO MATTELLINI  

Lo scrive lui, Francesco: ”Quand’ero nei peccati”.

Dobbiamo accettare le sue parole per vere. Non parlava come io ho udito dire, per umiltà, esagerando la sua condotta giovanile. Se le sue parole sono sincere, allora fu proprio scapestrato. Se false, allora Francesco offende la verità e non è santo.

 Di fronte alla sincerità di Francesco, ecco i ghirigori dei suoi biografi, che sminuiscono i peccati del santo e scivolano sui suoi peccati. Forse perciò i biografi di Francesco, tagliano corto sulla vita allegra del giovane Francesco, commettendo anche un danno a noi, che, peccatori, possiamo ancora sperare.

Spulciando fra le affermazioni dei  biografi, possiamo ricavare alcuni tratti di lui, quando era nei peccati.

Le citazioni seguenti sono desunte da Fonti Francescane, Assisi, 1997. Ne citerò i numeri marginali.

L’inizio della propria conversione  Francesco così lo ricorda: ”Il Signore concesse a me, fratello Francesco, d’iniziare così a fare penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse  tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo” (110).

Francesco attribuisce il disgusto verso i lebbrosi, non alla propria sensibilità, ma ai peccati. Ogni distacco dal prossimo, soprattutto da quello bisognoso, si confina nella plaga del peccato, dell’azione diabolica (dia-bolos).

La conversione di Francesco lo coinvolge tutto. E il risultato è indubbiamente psicosomatico: dolcezza di anima e di corpo.

La conversione è un processo che segna un confine, e parte da una situazione che si snoda in modo dinamico. Pure sulla conversione e sulle sue modalità influisce tutta la storia della persona, anche quel passato deviante sì, ma da noi spesso stimato come necessità ascetica o familiare (mio marito, mia moglie, mio figlio, ecc.).

IL PRIMA.

I biografi sono avari. Il Celano ne parla apertamente, ma in breve. Bonaventura tende a edulcorare, quasi a volatilizzare lo spessore di peccato di Francesco.

Il Celano scrive nella “Vita Prima”, la più spontanea:

“Dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alla vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso”.

Evidentemente qui si accusano i genitori. Addio la figura dolce  e buona della madre di Francesco? Nella “Vita seconda” invece Celano scrive che la madre fu specchio di rettitudine. Retromarcia per adeguarsi a quel “tutto tondo” imposto dalla agiografia del tempo, che voleva i santi perfetti fin dal “grembo materno”.

La prima vita fu scritta nel 1228-1229, quasi a ridosso della morte di Francesco. La seconda vita fu scritta una ventina di anni dopo. Su di essa ha influito l’ordine di scrivere una vita ufficiale, quindi manipolata, di Francesco. Questo comando ci regalò alcuni scritti; come la disposizione del Capitolo  Generale del 1260, ci regalò le due “legenda” di Bonaventura.

Noi sappiamo bene come erano e sono scritte le storie volute dal regime: comunista, marxista, fascista, o anche il subdolo regime dell’’Illuminismo o del Regno d’Italia, quando non si poteva dir male di Garibaldi, o anche quello dell’Inquisizione a fianco dell’indice dei libri proibiti o del nihil obstat.

Il Celano sembra scaricare sui genitori di Francesco la responsabilità della vita traviata dei figli. Tuttavia egli fa intuire quale era questa vita traviata, che i figli conducevano e che Francesco condusse.

Ecco alcune indicazioni del traviamento, seguendo Tommaso da Celano (317-321).

“Eccessiva tolleranza e dissolutezza” (318). Già da piccoli, appena iniziano a parlare, i bimbi imparano cose vergognose e condannabili.

Fin da bambini, appena svezzati, sono spinti a compiere cose indecenti. Peggio: nessun bambino agisce nobilmente, perché teme di essere castigato. Quanto più i desideri degli educatori sono dannosi, tanto più volentieri i figli li appagano.

Più tardi tutto peggiora. Da adolescenti rompono i freni di ogni norma, poiché essi si permettono di seguire il piacere e così si depravano.

Si fanno schiavi del peccato e le loro membra diventano strumenti di iniquità. Per non essere derisi dai coetanei, si buttano nell’impurità.

Francesco visse i suoi primi venticinque anni in questa atmosfera morbosa, quale la descrive il Celano. Anzi più degli altri visse male, addirittura facendosi promotore di mali e di stupidaggini. Si proponeva di superare gli altri, data la sua ambizione. In ogni campo si eccitava ed incitava gli altri, nei divertimenti, nelle raffinatezze, nei motti di spirito, nelle canzoni, con abiti ricercati e sfarzosi. Essendo ricco poteva permettersi sfarzi e scialacqui e così attirava attorno a sé altri giovani scapestrati.

La descrizione è sufficiente per denotare da quale strumento di bassezza si staccò Francesco nel procedere nella propria conversione. Conversione reale, non accademica.

L’inizio della conversione  avviene durante un periodo di malattia. Sempre un corpo, spremuto dai bagordi o dalla eccessiva attività, è così intelligente da imporre a chi lo maltratta, uno stacco, una interdizione, quasi un castigo per aver oltrepassato i limiti.

I limiti oltrepassati coincisero al culmine con la spedizione di guerra contro Perugia, da parte di Assisi. Allora vigeva la simpatica tradizione di azzuffarsi tra comuni limitrofi.

Gli assisani subirono la sconfitta e Francesco si trovò in carcere. Tentò di reagire  allo scorno, recitando la parte della persona allegra, nonostante lo smacco. Però cessò di fare lo sbruffone, per il sopraggiungere della malattia, forse una specie di deperimento organico.

Malattia e carcere. Ottima abbinata a favore del silenzio e della riflessione. La malattia è voce di Dio. Questa malattia giovanile si ripeterà e devierà in seguito Francesco dal recarsi in Marocco per il martirio.  La malattia gli ispirerà il Cantico delle creature.

Nella malattia la psiche regredisce, perde le difese, diventa malleabile, si avvicina all’ infanzia, accompagnando docilmente quel detto di Gesù: ” Se non diventerete bambini, non penetrerete nel regno dei cieli”. 

Forse perciò nota il Celano: “Colpito da una lunga malattia, come è necessario per la caparbietà umana, che non si corregge se non con il castigo.” (323)

Durante la malattia, se la persona riflette, intuisce. Però è durante la convalescenza che riordina la propria esistenza sulla traccia della precedente intuizione.

Francesco ancora debole, tenta il recupero delle forze.  Passeggia pur sostenuto da un bastone. E’ lento: o meglio, ha il dono della lentezza, durante la quale può soffermarsi ad ammirare la natura, ossia l’opera di Dio, che il contadino, per grazia, ammira più del Francesco commerciante indaffarato, e senza alcuna malattia.

Così Francesco assapora la bellezza della contemplazione, altra tappa di avvicinamento a Dio. Eppure chi ancora non ha guardato la gloria di Dio in faccia, la contemplazione lo conduce a guardare altre glorie. Si ripresenta  alla fantasia di Francesco la gloria della cavalleria. Una piccola gloria, che pretende di sostituire l’immensa gloria di Dio.

Francesco è al bivio: gloria delle armi cavalleresche (rappresentata da Gualtiero di  Brienne in lotta contro il Papa), oppure la gloria di Dio (rappresentata dalla Croce di  Cristo).

Il bivio si concreta durante un sogno. Un’armeria fornitissima. Una voce: “Queste armi sono per te e per i tuoi compagni!” (326).

Segue un secondo sogno (587), durante il quale, mentre Francesco esprime il proposito di recarsi a combattere, la voce gli chiede se preferisce seguire il servo o il padrone. Evidentemente  Francesco sceglie il padrone. Conseguenza: lasciare la guerra di Puglia e rientrare ad Assisi.

Rientrato in Assisi, non è più il Francesco di prima. La lieta brigata che l’attorniava, ritenta di riacciuffarlo nella festa e nel bagordo. Poi l’abbandona sempre più disorientata.

IL DOPO.

Ed ecco i segni del cambiamento avverato.

Comincia da ricco. Donando le proprie vesti ad un cavaliere malmesso; donando le stoffe alla gente. Insomma beneficando con munificenza. Ma amare i poveri è altra cosa: è trovarsi al loro livello. E’ molto più agevole aiutare e servire i poveri, che armonizzarsi con essi. Lo fece Gesù, come troviamo scritto nella seconda lettera di Paolo ai Corinzi. Per entrare nel nostro livello, Cristo, da ricco di divinità che era, si svestì di essa, per assumere la nostra povertà

Comunque l’itinerario verso i poveri è iniziato e Francesco condivide la vita con i poveri lebbrosi; restituisce al padre i propri abiti. E finalmente anche lui diventa povero.

Per Francesco diventare povero non è solamente una scelta alla Diogene, ma ricominciare davvero: la ricchezza di prima gli aveva dato la possibilità di vivere dissoluto, ora con la povertà Francesco si preclude severamente ogni possibilità di condurre vita dissoluta.

Da povero poi desidera monacarsi, girare per le vie straccione. Soprattutto da povero si pone davanti al crocefisso di San Damiano, da dove per ordine di Gesù, riparte la sua nuova avventura.

Convertirsi è non solamente una rettificazione della propria condotta, ma soprattutto un ritorno a Dio ed un ritorno al prossimo: lebbrosi o ignoranti, pagani o cristiani da riciclare con la predicazione e con l’esempio. Perciò la conversione di Francesco porta lui e quelli che vogliono condividere la sua avventura, verso tutto il mondo, vicino e lontano, per illuminarlo di Dio.

Francesco non diventa povero per “amore della povertà” ( come i filosofi antichi o anche come i biografi tardivi di Francesco e lo stesso Dante affermano ), ma per essere sciolti nell’amare concretamente Dio e gli uomini. Liberi per l’amore, non liberi per l’egoismo.

La descrizione dei passaggi visibili nella conversione di Francesco è facile da seguire.

Però sappiamo che l ‘opera convertitrice è agita solo da Dio.

Rileggiamo il testamento: ”Il Signore concesse a me, frate Francesco, di incominciare così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia” (110).

“Il Signore mi dette tanta fede nelle chiese…(111).

“Poi il Signore mi dette tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la formula  della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi”(112).

“Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace”(121).

“Il Signore mi ha dato di dire e di scrivere la Regola  e queste parole…”(130).

Questo ritornello, “Il Signore” che echeggia lungo il “Testamento” ci indica chiaramente ciò che lo stesso Francesco teneva per certo. Solo Dio era alla fonte del suo muoversi nella conversione e nella continua conversione che percorse la vita di Francesco e che percorre anche oggi, ogni momento, la nostra vita.

Conversione è opera dello Spirito che ci dà, secondo Paolo, il sapere e il sentire al modo di Dio, conforme il suo Amore.

Vorrei aggiungere una piccola osservazione. Si parla molto della “letizia francescana”. Si cerca la sua origine, la si scambia con la giullarità. Eppure il Testamento di Francesco dice chiaramente dove sta l’origine, dalla quale scaturisce l’inizio della letizia. Rileggiamo l’inizio del testamento di Francesco: “E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo” (110). Il lebbroso si trasforma in dolcezza, in letizia.